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domenica

Dala-Dala (considerazioni sulla viabilità e breve storia di sacramento)






In Tanzania, sono ancora poche le persone che possono permettersi l’automobile, quindi i trasporti pubblici devono essere efficienti e alla portata di tutti.  
I dala-dala rispondono a questa necessità perchè sono abbastanza economici e arrivano dappertutto, anche nelle zone più isolate. I posti a sedere sono circa 16-20, ma questi piccoli mezzi ovali non si muovono se prima non fanno il pieno assoluto. La benzina costa, quindi bisogna far salire il maggior numero di passeggeri. Almeno 25, al massimo 30. I dala-dala di solito sono di colore bianco, con una striscia verde che attraversa la carrozzeria a livello dei fari. Nella parte anteriore c’è scritto il nome della destinazione, in modo che le gente possa individuare il bus che deve prendere.
Il condacta, così viene chiamato (dall'inglese storpiato) l’uomo che si occupa di chiedere i soldi ai passeggeri, in prossimità delle fermate, grida ripetutamente il nome della destinazione. In questo modo anche gli analfabeti sapranno dove dirigersi.
Il condacta è un personaggio abbastanza caratteristico e sembra la vedetta di una nave pirata. Viaggia sempre con metà corpo fuori dal finestrino, rientrando con una certa abilità ogni volta che bisogna aprire il portellone. Con i passeggeri deve essere deciso, a volte spietato altrimenti quelli non pagano, oppure s’inventano qualche scusa per avere uno sconto. Ma il condacta non è mica stupido! Si fa pagare in anticipo, appena la persona sale. Paghi? Ok, puoi salire. Stai frignando per uno sconto? Sali solo se quel giorno i passeggeri sono davvero pochi e bisogna rastrellare monetine.
Il dala-dala è indubbiamente il padrone delle strade tanzaniane. Ho avuto modo di osservare alcune bizzarre situazioni:
1.Se bisogna fare benzina, motore acceso
2.Se si rimane bloccati nel traffico per 15 minuti, motore acceso
3.Se ci si ferma perchè non ci sono passeggeri e bisogna aspettare molto, motore acceso
4.Se bisogna gonfiare una ruota, motore acceso e i passeggeri non vengono fatti scendere per rendere possibile l’operazione
(x)Se un pedone cerca di attraversare la strada, ecco che l’autista lo avverte con il clackson: significa non provarci.
(y)Se un pedone sta già attraversando la strada, l’autista lo insulta con un gesto: significa torna subito indietro, la prossima volta ti prendo sotto.
(z)Se un pedone ha già attraversato la strada facendo attenzione a non essere investito, l’autista scende e insegue la preda: significa adesso ti do una lezione. Diavolo, poteva essere un incidente!

La gente però più di tanto non si scompone, le cose vanno così e basta. Anche quando il condacta insiste per far salire altra gente mentre i passeggeri si stanno già schiacciando tra loro come sardine, nessuno protesta. Però ricordo che un giorno, mentre andavo ad Arusha con il dala, un anziano signore mi aveva detto: -Una volta non era così, c’era più rispetto! Un giovane non si sarebbe mai permesso di chiedermi i soldi del biglietto senza prima avermi salutato correttamente. E poi tutte quelle spinte per salire e  avere il posto, questi giovani sembrano una mandria di vacche impazzite! Una volta non era così...-

In città, nei negozi per turisti, tra i vari articoli in vendita ci sono magliette con il disegno del piccolo bus con la scritta -Sono sopravissuto al dala-dala!- Quella vignetta, non è una semplice ironia per occidentali, dice proprio la verità! E gli africani lo sanno benissimo, infatti su tutti gli autobus ci sono scritte del tipo Gesù è il migliore oppure Dio è veramente potente- Questo affidarsi al divino, non è mania religiosa, ma razionale timore di quello che potrebbe succedere in caso di incidente.
Baraka, un ragazzo di Mererani, dice che i dala dala sono pericolosi: -A volte mi capita di utilizzarli, ma ne ho paura. Non ce la faccio a rimanere seduto sapendo che alla guida ci sono quei spericolati senza patente...Vanno troppo forte e poi sono sempre troppo carichi. Basta un piccolo tamponamento e...- Dai giornali locali e dalla televisione si apprende che il numero di sinistri (e di morti) sul tratto Arusha-Moshi è altissimo. La strada è completamente dritta e asfaltata, per questo le auto corrono. Il governo allora ha deciso di intervenire mettendo sulle strade enormi dossi artificiali e molti posti di blocco. Il risultato però è che gli incidenti non sono diminuiti, in compenso i poliziotti, grazie alle bustarelle, riescono finalmente a portare a casa uno stipendio ragionevole...
Ma in fondo, è anche piacevole viaggiare sul dala-dala!
Con quei piccoli ovali bianchi si arriva dappertutto, e non importa se si sta un po’ stretti, perchè forse alla prossima fermata qualcuno scenderà e allora si starà meglio. La gente chiacchera e ascolta la bella musica che esce dall’autoradio. Dai finestrini arriva una fresca brezza che aiuta a sopportare il caldo...

Sacramento
Nel 2007, durante il mio viaggio da Arusha fino a Città del capo, di dala-dala ne ho usati parecchi, anche per tratti abbastanza lunghi. In particolare, me ne è rimasto impresso uno che mi doveva portare da Karonga a Mzuzu, nel Malawi. Ricordo che mi trovavo alla stazione in cerca di un mezzo di trasporto, quando un signore ben vestito che portava al collo una grossa croce mi aveva informato che l’autobus che dovevo prendere si chiamava Sacramento. Non ho mai saputo il motivo di quel nome e ne sono ancora curioso.
-Si, ma a che ora parte?- avevo chiesto impaziente.
-Tra un quarto d’ora- mi era stato risposto dal capo stazione per tutta la mattinata.
Colore azzurro, immagine sacra dipinta in alto a destra, parabrezza crepato in basso a sinistra,  Sacramento era li, parcheggiato davanti a me e non si muoveva di un millimetro. Quel nome mi sembrava strano, per me non era affatto un riferimento religioso, mi faceva piuttosto pensare ad un’imprecazione! Ero infatti molto spazientito; e come me, gli altri viaggiatori, stanchi di starsene seduti ad aspettare, facevano la spola tra il bar e le panchine di cemento della squallida stazione.
Alla fine, dopo ore di inutile attesa, ci venne comunicato che quel giorno, l’ormai mitico Sacramento non sarebbe mai partito. Più tardi allora, salii su un anonimo autobus indicatomi dal capo stazione e finalmente partii per Mzuzu. Quella fu una delle giornate più memorabili del mio viaggio.
E ancora oggi, ogni volta che mi capita di vedere una stazione delle corriere, mi viene in mente quel Sacramento di autobus che mi toccò aspettare tutta la mattina...

venerdì

MWIKA

Ndizi

giovedì

Dodoma





1-Mji mkuu (the capital city)
Per essere la capitale della nazione lasciava a desiderare. Arrivando con l’autobus, prima della stazione, avevo visto il bunge, cioè il parlamento. Quella costruzione dall’architettura strana era l’unica vera ragione che faceva di Dodoma una città importante; ma per il resto, non c’era un bel nulla, se non una forte brezza dall’alba fino al tramonto.
Tuttavia decisi che mi sarei fermato li qualche giorno, volevo uscire dal centro e visitare le periferie. In fondo, quella desolazione mi piaceva, la pianura di quei luoghi permetteva di guardare l’orizzonte senza capire dove si arrivava.

Mi sistemai in una guest house chiamata Kibo, poco prima del quartiere area-c. Stanze pulite, acqua calda e colazione abbondante. Rimasi stupito dalla qualità offerta da quel buco, ma ciò non era strano. Dodoma era piena di alberghetti economici di buona qualità, visto che periodicamente, quando si riuniva il parlamento, la città si riempiva fino all’ultima stanza.
Il giorno seguente, passeggiando nelle polverose strade di Dodoma, mi accorsi del gran numero di persone che usavano la bicicletta, così non ci pensai due volte e andai a noleggiarne una. In realtà non si trattò di una facile operazione in quanto l’uomo al quale mi rivolsi era molto diffidente:-Sei nuovo di qui? Non ho mai visto la tua faccia. E se ti do la bici, chi mi dice che poi me la restituisci?E se tu avessi un incidente, chi mi risarcirebbe? Ero colpito dal suo atteggiamento, ma pensai che quella fosse la prassi. E poi, chi ero io per meritare la sua fiducia? In fondo, quell’uomo stava semplicemente salvaguardando il suo piccolo business. Quando si convinse che non intendevo rubargli la bici, mi consegnò una specie di graziella nera con tanto di cambio e cestino anteriore. Prezzo pattuito: 300tzsh all’ora.

Mi diressi verso un’altura che nella mia guida era indicata come Lion Rock: una breve escusione di mezz’ora vi porterà sula cima, dove potrete godere di una vista mozzafiato.
Parcheggiai la bici presso un’abitazione privata, dopo aver chiesto il permesso al padrone di casa. Poi, percorsi un breve tratto di strada asfaltata, prima di raggiungere l’inizio del sentiero. Incontrai un gruppo di persone, così chiesi loro se sapevano il motivo del nome della montagna, Lion Rock. Nessuno seppe rispondermi, anzi mi dissero che a Dodoma non esisteva una montagna chiamata così. Loro la chiamavano mlima (montagna) e basta. Allora capii che sicuramente era stato un europeo a dargli quel nome e che quel Lion rock per gli africani non significava niente.
Un po’ deluso, iniziai il sentiero.
Quello che mi colpiva maggiormente, era la forma rotondeggiante delle rocce. Erano appoggiate le une sulle altre in perfetto equilibrio, come delle enormi sfere cadute dal cielo. Ne avevo viste di simili anche  a Mwanza, sul lago Victoria.
Raggiunsi la cima in pochi minuti, poi sedetti a riposare e a guardare il panorama. Proprio ai piedi della montagna notai un cantiere, si vedevano delle ruspe e alcune piccole buche. Pensai all’estrazione di pietre preziose, ma più tardi seppi che si trattava della costruzione della casa di un politico.
Una volta sceso dalla mlima recuperai la bici per tornare in città, ma dopo pochi metri vidi un cartello che non lasciava alcun dubbio: Leone l’africano-pizzeria. Era il locale di un Italiano, così entrai subito.
La struttura sembrava di recente costruzione. C’era un bel giardino con un mini-golf e una sala ristorante semplice e accogliente. Mi sedetti ad un tavolo e ordinai una  margherita. Il locale era quasi vuoto, forse perchè in quel periodo non c’erano attività parlamentari e di conseguenza la città era semi deserta.
Dopo una breve attesa il cameriere portò la pizza...e anche i gestori del locale. Erano Nino e la moglie Giovanna, soci fondatori dell’associazione Kisedet, kigwe social economic development and training.
Nino e Giovanna vivevano in Tanzania da circa quindici anni, parlavano un perfetto kiswahili e conoscevano anche il dialetto della popolazione locale, i Wagogo. Mi fecero subito una bella impressione, erano persone semplici e si occupavano di progetti costruiti assieme agli africani. Nel frattempo altri italiani arrivarono al ristorante, ma non ebbi modo di conoscerli perché andarono a sedersi nella sala interna. Nino, rimase con me e parlammo un po’.- Eh si, bello girare il mondo, ma non sono più un ragazzino! Rientriamo in Italia ogni 2 anni circa, ma solo per fare un giro. Di tornare per adesso non se ne parla, anche perché mi sembra che la non sia facile trovare lavoro. E poi qui stiamo bene, abbiamo due bambini piccoli.  Ora abbiamo aperto questo locale, vediamo come va!
Finita la pizza, salutai Nino e Giovanna e ripresi a pedalare verso il centro.
Arrivato alla rotatoria pensai che era troppo presto per rientrare, così presi la strada che portava al Chuo Kikuu Cha Dodoma, l’università più importante della Tanzania. Si trovava su una collina appena fuori città, e dominava sul quel paesaggio fatto di capanne, deserto e terra rossa.
Una volta arrivato mi resi conto che non si trattava di un singolo edificio, ma di un grande campus universitario che si estendeva per centinaia di metri. C’erano diverse costruzioni, alcune ancora in fase di realizzazione. Quella era tutta opera degli amici preferiti della Tanzania: i cinesi! Guardarli mentre istruivano gli africani, attirò la mia attenzione al punto che, non andai a visitare l’università, rimasi a guardare la scena: il cinese seduto nel suv, dava indicazioni all’africano sulla ruspa. Ecco che la ruspa raccoglieva la terra e la depositava sulla banchina da sistemare. Poi il cinese scendeva dal suv e faceva un gesto circolare con la mano. Allora la ruspa tornava indietro, ripeteva l’operazione e sistemava il tratto successivo...
Dopo quella breve e attenta osservazione, girai la bici e tornai in città.
Erano quasi le sei e mezzo quando mi presentai per riconsegnare la bicicletta. Il negoziante provò a chiedermi un extra, ma alla fine si accontentò del prezzo pattuito. Prima di rientrare alla guest house mi fermai in un bar a bere una soda e a guardare la televisione. Trasmettevano la replica di un programma molto popolare e abbastanza stupido: maisha plaza.

2-Il cinema
Il giorno successivo, sempre in bici, avevo progammato di tornare sulla collina e finalmente visitare l’università.
Stavolta a fermarmi fu un piccolo incidente, cioè la foratura di una ruota.
Dei ragazzi che mi avevano visto arrivare si precipitarono per offrirsi di riparare la bici:- Mzungu, njoo! Unahitaji pancha pancha pancha...- cioè dicevano che avevo bisogno di una camera d’aria. Allora lasciai la bici a quei esperti di pancha, e andai a comprare da bere. Arrivato al negozio rimasi colpito dall’insegna curiosa: locandine di film, attaccate con il nastro adesivo... Quello non era un semplice negozio, era un cinema!
Sollevai una tendina sudicia e entrai in sala, facendo attenzione a non disturbare la proiezione in corso.
Il cinema era costituito da due telivisori, un piccolo e un grande, posizionati in due stanze diverse. Alcune panche sistemate alla buona, sul pavimento di terra rossa, facevano da platea. Per assistere ad una proiezione bisognava pagare 200tzsh.
Gli spettatori erano numerosi e stavano guardando un film di arti marziali (il genere preferito dei giovani tanzaniani), una voce fuori campo traduceva in kiswahili.
Ero arrivato proprio nel momento cruciale, il combattimento era giunto al termine e adesso il vincitore puntava la spada al collo dello sconfitto. Allora in sala cominciò una vivace discussione: lo sconfitto doveva essere ucciso oppure no? Alcuni ridevano e gridavano, altri protestavano dicendo che quelle chiacchere disturbavano la visione del film, ma improvvisamente...colpo di scena! L’uomo a terra tirò fuori un coltello dalla cintura e colpì a morte l’avversario.
Nessuno si aspettava quel finale a sorpresa.

3-La casa rossa
Poco distante dal cinema c’era un ragazzo che stava costruendo una casa, rossa come la terra circostante. Mi fermai e parlai un po’ con lui. Mi disse che nel giro di pochi giorni avrebbe finito: - La casa sarà pronta in una settimana. Dalla vendita ne ricaverò circa 350.000tzsh (150euro)Ne costruisco spesso, di case come queste; è il mio lavoro e mi piace-

mercoledì

HABARI ZA SAFARI









-Shikamoo Babu!
-Marahaba bwana, umeankaje ?
-Salama, na wewe pia?
-Ndyo…
L`incontro con Babu è un appuntamento che scandisce il tempo delle mie giornate. Pochi attimi che hanno però un significato importante.
Babu avrà novant’anni. Dico avrà perchè nessuno veramente lo sa con precisione, nemmeno lui. Ma qui, specialmente nelle zone rurali, il preciso dato anagrafico non ha importanza. Si sa che lui è il più vecchio di tutto il villaggio. Per questo, al mattino il primo saluto della giornata dovrà essere per lui, no way.
E` alto e molto magro. Cammina piano piano ed ogni movimento gli costa un certo sforzo. Ma stà bene; è autosufficente e si arrangia in tutto. Vive con la famiglia di sua figlia. Una famiglia molto allargata, come vuole la tradizione africana. Ci sono sua figlia con il marito e i relativi 4 figli. Poi due nipoti piccoli provenienti dalla famiglia di un altro figlio che però vive in città e non ce la fa con i soldi. Poi c`e un`altra figlia di Babu con il suo bambino. Ci sono anche tre ragazzi adolescenti figli di un masai imparentato con il marito della figlia di Babu. Infine c`e una ragazza che aiuta a cucinare i pasti, non fa parte della famiglia, ma anche lei fa numero. In tutto sono…ho perso il conto, ma son tanti.
Il Babu passa le giornate seduto nella sua sedia osservando quello che succede nel villaggio. Ma il suo osservare e` discreto e rispettoso. Con molta calma.
Ogni tanto fa due passi con la sua capra. La porta a spasso per un po` e poi la lega ad un albero, dove può starsene all`ombra a brucare l`erba. Poi lei si libera e se ne va poco distante a cercare altra erba. Allora il Babu si alza e comincia a chiedere a gran voce- Dov`e la capra?! Avete visto la mia capra?! – E, dopo numerose ricerche nel raggio di 20-30 metri, la trova all`ombra dell` albero più grande.

-Leo ni joto sana, jua ni kali !-Oggi fa caldo e il sole è tagliente, dice il Babu.

Il suo modo di raccontare e spiegare le cose e` di una semplicità disarmante. Ad esempio un giorno mi fa – I tedeschi ? Sono venuti in Africa ed hanno ammazzato un sacco di persone. Poi se ne sono andati. E oggi vengono a vedere i leoni del Serengeti. Non ti sembra strano, eh ?! Oppure- Vorresti sposare la figlia di un mio amico ? Guarda, e` quella la in fondo. La vedi? Guarda che fianchi robusti, ti darà molti figli… Vai da suo padre e portagli un paio di vacche grasse…così la sposi, semplice!!!

Il Babu non è mai andato a scuola. Non sa ne`leggere ne` scrivere, ma quando te lo trovi davanti ti rendi conto che si tratta di una persona che ha una grande conoscenza. Quel tipo di conoscenza che soltanto un certo tipo di vita può dare. Mi racconta che da ragazzo portava il bestiame nelle grandi pianure in cerca di erba e acqua, camminava per giorni e giorni e qualche volta arrivava fino in Kenya.
Era un Safari vero, il suo.
Un viaggio che poteva comprendere molte cose. La lotta per la sopravvivenza prima di tutto e poi la fatica, gli animali selvatici, la malaria.
Ma alla fine del viaggio aveva imparato molto, un qualcosa da tenere per sempre e tramandare alle persone del suo villaggio, Habari za Safari.

Non so perchè, ma ascoltando la parole del Babu mi viene voglia di raccontargli qualcosa. Allora prendo il mio dizionario italiano-kiswahili e mi siedo vicino a lui.
E` la storia di due fratelli, Angelo e Andrea, due soldati dell`esercito italiano sul fronte russo. La guerra finirà presto e i due giovani stanno tornando a casa, dopo la storica batosta. Un lungo viaggio attraverso le gelide terre siberiane. In questo caso non ci sono gli animali selvatici o la malaria, ma il freddo e la guerra sono più che sufficienti a rendere questo safari estremamente difficile.
Angelo però non e` fatto per stare nell`esercito; è stanco della guerra e la sua indole e` quella del ribelle, sempre pronto ad andare contro le regole. Dice che non salirà mai su quel treno militare. Preferisce disertare, abbandonare per sempre l`esercito. Magari gli spareranno durante la fuga, ma non importa, lui ha deciso e così farà. Andrea invece ha solo 17 anni. Non e` come suo fratello, spregiudicato e temerario. La guerra finirà presto e lui non vede l`ora di tornare al suo paese dove tutti lo stanno aspettando.
Ma Andrea, a casa sua non tornò mai più. Il treno sul quale viaggiava fu fatto saltare in aria. Ufficialmente è tuttora disperso.
Angelo invece, schivate un paio di pallottole, riuscì a scappare, ma il suo safari di rientro fu più lungo del previsto. Dieci anni attraverso l`Europa semidistrutta del dopoguerra, prima di tornare alla sua terra d'origine, l'altopiano di Asiago.

Il Babu ascolta con attenzione senza farmi pesare il mio kiswahili ancora precario. Sembra capire molto bene quello che gli dico. Poi quando ho finito di parlare, dopo una lunga pausa, mi dice : -Ah, pole…lakini mtu moja amerudi nyumbani! Però uno dei due e` riuscito a tornare a casa! Safari imekua mbaya kidogo! Il safari e`stato duro, ma non completamente negativo perché uno dei due alla fine e` tornato a casa!-
E anche questa volta, il Babu da prova della sua saggezza. Come sempre il suo punto di vista riesce a mettere assieme tutti gli aspetti. La sua capacità di leggere le cose da una prospettiva più alta e`straordinaria.
Restiamo in silenzio per un bel po’, ma si tratta di un silenzio sereno. L`Africa e l`Europa si sono appena incontrate in un punto indefinito dello spazio intorno a noi. E sappiamo entrambi che non c'è nient'altro da aggiungere.
-Sasa, mimi naenda kutembea kidogo, tutaonana baadaye- dice il Babu alzandosi e comunicandomi la sua intenzione di farsi una passeggiata. -Safari njema- gli rispondo io, sapendo che per lui quei mille metri fino al negozio saranno un piccolo viaggio.

E forse, un altro Habari za Safari da raccontare.

domenica

I giornali raccontano -1-



Mi è stato detto che in Tanzania i giornali vendono poco. Il prezzo, pur essendo ragionevole, 500 tzsh, per molti è ancora eccessivo. Per l’uomo del villaggio le disponibilità economiche sono molto limitate, quindi darà la priorità a quello che gli sembra più necessario. Ad esempio, se deve scegliere tra una soda o un giornale (costano uguale), non ci sono dubbi, alla fine prenderà la soda. Ma è logico:

1-Se ha più di 45-50 anni probabilmente non sa leggere perchè da ragazzo non ha potuto studiare; è cresciuto occupandosi del bestiame e lottando per sopravvivere. Quindi che cosa se ne farebbe di un giornale?
 2-Durante il giorno fa molto caldo e lui non ha niente da bere. L’acqua gli andrebbe benissimo, ma per berla, dovrebbe prima di tutto andare a prenderla alla fontana più vicina. Poi, trasportarla sulla testa con un secchio pesante. Dovrebbe trovare la legna per accendere il fuoco, in modo da poterla bollire. Infine ci sarebbe da aspettare che l’acqua si raffredi.

I giornali quindi vendono poco. In compenso, la coca cola e la birra fresca vanno alla grande. Ma le notizie sono tante, anzi tantissime. Penso sia un’impresa riuscire a raccontare tutto quello che succede. Il territorio è vasto e molte zone sono ancora senza elettricità e senza strade. A volte separate dalla civiltà da un parco naturale abitato da animali feroci.
I giornali quindi vendono poco, ma attitrano comunque l’attenzione di molte persone, anche quelle analfabete. Quando ogni mattina vengono esposti nel banchetto, una piccola folla si raduna li davanti. Tutti vogliono dare un’occhiata, leggere i titoli o almeno guardare le figure, e poi discutere della notizia o della foto più interessante. Spesso, la cronaca locale fa da padrona. Riesce a catturare l’attenzione delle persone perchè quelle storie parlano di loro, di come vivono, di cosa vogliono e di cosa hanno paura.
In questi giorni ho più volte comprato il citizen, un giornale in inglese che sembra molto popolare. Ecco alcune notizie tradotte: 

-Linciaggio-Folla inferocita uccide presunto ladro- (by Lilian Lucas)
Un cittadino residente a Chamwino Ward in Morogoro, mr J.O. 30, è deceduto dopo essere stato attaccato da una folla inferocita.
Mr J.O. era stato accusato di aver rubato un rubinetto che si utilizza per l’acqua.
Il comandante della polizia locale riferisce che attualmente nessuno è stato arrestato in connessione al pestaggio, ma che è stata aperta un indagine.

-Panico a scuola. Uno spirito maligno attacca alcuni studenti- (by Geoffrey Nyang’oro)
Circa 20 studenti sono improvvisamente collassati a terra dopo essere stati attaccati da uno spirito maligno. Momenti di panico ieri mattina presso una scuola elementare di Dar Es Salaam. Mr. Godfrey W., insegnante di inglese, stava procedendo con la lezione  quando la studentessa che stava alla lavagna è improvvisamente collassata sulla scrivania. Il fatto si è verificato dopo che all’interno dell’aula era stato avvertito un forte e inspiegabile vento. Mr Godfrey dice di aver provato a rianimare la ragazza con dell’acqua, ma non riusciendoci è andato a chiamare aiuto all’esterno. Nel frattempo, altri studenti hanno cominciato a collassare a terra. Allora è intervenuto il preside, invitando tutti gli insegnanti a formare immediatamente un gruppo di preghiera, in modo da scacciare lo spirito. Successivamente, dopo che molte persone erano venute in soccorso alla scuola, tutti gli studenti hanno ripreso conoscenza. Il preside dice che quei studenti dovranno sostenere gli esami la prossima settimana:-Non ho mai visto nulla del genere in questa scuola, sembra che alcuni studenti fossero temporaneamente posseduti da uno spirito maligno-
Una volta appresa la notizia, molti genitori si sono presentati a scuola: -Sono venuto a prendere mio figlio. Grazie a dio non è stato coinvolto dagli spiriti, ma credo che lo farò rimanere a casa qualche giorno, non si sa mai che cosa può succedere.-
Pastor Joseph Nyaga, uno dei sacerdoti accorsi sul luogo dell’accaduto, spiega ai giornalisti di aver trattato con successo lo spirito maligno. -Le nostre preghiere hanno messo in fuga lo spirito che aveva temporaneamente disturbato gli studenti. Le lezioni possono riprendere tranquillamente, senza problemi-

Recuperato il pitone scappato. Gli abitanti di Mwenge esultano. (by Lucas Liganga)
Era nascosto nei pressi di un vecchio generatore in disuso.
Il grande protagonista delle cronache dei giorni scorsi è stato catturato. A Mwenge, sobborgo di Dar es Salaam, si festeggia: -Sono stai giorni terribili, eravamo in pensiero per i nostri bambini, ma adesso è finita!-
Gli eroi del giorno sono due ragazzi di Mwanza, città del lago Victoria. I due, esperti di serpenti e sicuramente temerari, sono riusciti a recuperare il pitone scappato nei giorni scorsi. L’animale era destinato all’esposizione di Nane-nane. Un abitante della zona commenta -E’ una fortuna che il pitone sia stato recuperato. Questi serpenti quando sono affamati possono attaccare animali come, gazzelle, maiali, pecore, galline, gatti. Ingoiano la preda senza masticarla. Il loro stomaco produce acidi in grado di digerire qualsiasi cosa-
Quando la chiesa ruba tua moglie (by citizen reporter)
L’ondata spirituale che sta attraversando la Tanzania in questo periodo, sta determinando la costruzione di molte chiese e la formazione di gruppi religiosi che si riconoscono principalmente nella chiesa pentecostale. Ma non solo. La totale devozione alla vita religiosa sta mettendo in crisi un sempre più elevato numero di coppie. Mr. Andrew Mchovu, counsellour che lavora con The new organization development agency a Dar Es Salaam dice che sono molti i casi dove la richiesta di divorzio è motivata dall’eccessivo coinvolgimento nelle attività della chiesa da parte di uno dei coniugi. Tranne qualche raro caso, il problema riguarda sempre le donne. Jonh Edward racconta la sua esperienza: -Ho sempre considerato la chiesa come un luogo sacro dove la mia famiglia poteva soddisfare i bisogni spirituali, ma oggi non è più così. Mia moglie non è più la stessa. Da anni ormai impiega tutte le sue energie nelle attività ecclesiastiche. Sono costretto a essere padre e madre dei miei figli. Edward, padre di due ragazzi, è titolare di una piccola attività nel sobborgo di Kijitonyama, in Dar es Salaam. Dice che sua moglie è sempre in chiesa, e quando torna a casa è ugualmente impegnata a pregare. Naturalmente, non c’è nemmeno il tempo di svolgere i doveri coniugali. Quando Edward ha chiesto aiuto al sacerdote che gestisce la chiesa, gli è stato risposto che sua moglie ha ricevuto una speciale chiamata da dio. Mr.Mchovu, che oltre a counsellour è anche laureato in psicologia, dice che è necessario trovare un equilibrio tra chiesa e famiglia.
Le nuove chiese, soprattutto pentecostali, comparse in Tanzania negli ultimi anni hanno sicuramente risposto ad un reale bisogno della gente, ma oggi gli esperti mettono in guardia:- L’ondata spirituale al quale stiamo assistendo, sta mettendo alla prova troppi matrimoni. Le persone ossessionate dalla religione tendono spesso a dimenticare i propri famigliari, pensando che Dio si curerà di ognuno di loro-Spiega Mr.Mchovu.

Un caso interessante è quello del vescovo Zachary Kakobe, personaggio controverso molto seguito dai media. All’inizio di quest’anno i suoi seguaci hanno trascorso tre mesi all’interno della chiesa, organizzando turni in modo da garantire la presenza giorno e notte. Questo per fare la guardia all’insegna della chiesa che TANESCO (Tanzania Electric Supply Company) aveva ordinato di rimuovere(l’insegna ostacolava i pali della luce). Una seguace di Kakobe, Francisca Mathew, 45 anni e madre di tre ragazzi, risponde così all’intervista del citizen:-Stavo facendo quello che dio voleva.  Spesso ho dovuto farlo di nascosto a mio marito. Ma niente è cambiato in famiglia perchè mi organizzavo e riuscivo a occuparmi anche dei lavori di casa-
Alla fine, l’insegna è stata rimossa all’inizio di marzo, dopo tre mesi di attese.

Senza dubbio, nelle chiese la maggioranza è costituita da donne. E sono sempre loro a cadere a terra (apparentemente prive di sensi) durante la celebrazioni.
Janet Rweyemamu, 20, racconta di sua madre:- è sempre occupata. Talmente occupata che raramente la vediamo a casa. Ci manca molto, anche se effettivamente vive con noi. Deve sempre a servire dio, per una cosa o per un’altra. Lunedi lezioni di Bibbia, martedì incontro per donne, mercoledi incontro per nuovi convertiti...Chi organizza le attività ecclesiastiche dovrebbe essere più flessibile e tenere conto del fatto che le famiglie hanno delle priorità. I credenti si trovano di fronte a un bivio. Sono forzati a dover scegliere tra la famiglia e dio. Ma se le attività della chiesa si svolgessero in tempi e orari ragionevoli questo dilemma non ci sarebbe-
Pastor Paul Safari, della chiesa pentecostale di Dar Es Salaam (DPC), difende il comportamento dei religiosi dicendo che non c’è nulla di sbagliato nel prendere parte alle attività.-Abbiamo diversi gruppi, ognuno è libero di scegliere a quale attività partecipare. Le donne svolgono attività sempre più importanti e sono affidabili. Per questo penso che dovrebbero poter accedere al sacerdozio. Perchè siamo uguali di fronte a Dio. E non credo che passino più tempo in chiesa che a casa, mancando ai propri doveri. E poi, ricordate che gli obblighi famigliari valgono per entrambi i coniugi-

martedì

Salvation in Sakila -featuring Dolores O'Riordan




Si vedeva una grande pianura ricoperta di verde, una leggera foschia all’orizzonte e una strisciolina grigia sulla quale transitavano delle minuscole vetture. Quella era la strada asfaltata che da Kikatiti arrivava a Moshi e proseguiva poi verso Same.
Erano le otto del mattino ed io e Aseri eravamo in viaggio, diretti in una zona chiamata Sakila, dove si trovava anche l’omonima montagna che arrivava a circa milleseicento metri metri di altezza.
La forma rotondeggiante di quella montagna aveva da sempre attirato la mia attenzione. Tutte le volte che salivo in un autobus per andare da qualche parte, prima o poi me la vedevo passare accanto. Così, avevo chiesto informazioni agli abitanti di Imbaseni ed avevo scoperto un particolare interessante. Quella non era soltanto una montagna, ma anche un luogo di culto. Mi era stato detto che quasi tutti i giorni dell’anno qualcuno saliva in vetta a pregare. Alcuni venivano dalle zone circostanti, altri perfino da Nairobi. Ci stavano per poche ore, giorni o anche una settimana. La gente rimaneva lassù senza scorte di cibo o acqua, il digiuno rendeva quel pellegrinaggio ancora più importante. Quella storia mi aveva incuriosito ulteriormente, così, sapendo che Aseri abitava da quelle parti gli avevo chiesto di venire con me fino alla vetta. Lui era rimasto contento della mia richiesta e mi aveva anche invitato a passare per casa sua nella via del ritorno.
Conoscevo Aseri perché lavorava come guardiano notturno della scuola di Imbaseni. Iniziava il turno alle sei del pomeriggio e finiva alle sei del mattino. Tutte le notti lo sentivo passare sotto la finestra della stanza dove dormivo. Ciò significava che il giro di ronda era quasi finito e che il nuovo giorno era alle porte. Consideravo il suo lavoro molto duro perché in quelle zone durante la notte la temperatura scendeva abbastanza rispetto al giorno. E poi il suo stipendio, come quello degli altri guardiani, era molto basso, sui cinquantamila tz sh al mese. Circa trenta euro per mantenere moglie e figli. Di sicuro la sua vita non era facile.
Aseri era un uomo taciturno, ma buono e disponibile. Dato il suo aspetto magro e particolarmente scavato in volto, la gente chiacchierava, diceva che era malato e che probabilmente aveva il virus, cioè l’AIDS.

Un paio d’ore dopo la partenza avevamo già fatto molta strada. Superati i villaggi di Leray e Njeku ci trovavamo ora a percorrere una breve salita che ci avrebbe portato alla base della montagna da raggiungere. Ci fermammo a riposare, seduti su dei sassi, e notai che i bambini che passavano rimanevano particolarmente stupiti della mia presenza, o meglio del fatto che ero bianco. Molti di loro non ne avevano ancora visto uno, mi spiegò poi Aseri, ma ciò non era strano, ci trovavamo abbastanza distanti dalla strada principale e di stranieri in quei posti non ne venivano mai. Aseri mi raccontò che molta della gente che incontravamo non parlava Kiswahili, la lingua nazionale, ma soltanto Kimeru, il dialetto della tribù dei Wameru.
Ad un certo punto arrivammo ad un bivio:
-Laggiù c’è casa mia!- disse Aseri indicandomi una valle dove si scorgevano le lamiere dei tetti delle case.
Svoltammo a sinistra ed iniziammo la salita vera e propria.
Da subito mi resi conto di aver sottovalutato l’escursione. Il sentiero era estremamente ripido e al limite della praticabilità a causa della fiorente vegetazione. Il cielo nel frattempo si era coperto di nubi, sembrava che di li a poco sarebbe arrivata la pioggia. Il tal caso immaginavo che ci saremmo trovati in un mare di fango...
Ma mentre io annaspavo con il cuore a mille e mi preoccupavo del meteo, Aseri procedeva silenzioso senza mostrare particolari difficoltà. Era un grande camminatore, probabilmente lo era diventato per necessità visto che tutti i giorni per venire a lavorare camminava per un totale di cinque ore, tra andata e ritorno. Altro che AIDS pensai, con tutta quella strada da percorrere era normale che fosse così magro...
Eravamo ancora lontani dalla cima, quando mi resi conto che davvero ci trovavamo nel cuore della foresta africana.
La grande ispiratrice di antiche leggende e custode dei segreti dell’Africa più profonda.
Non si poteva non rimanere affascinati da quel luogo.
Qualche piccola scimmia saltava inquieta, preoccupata forse della nostra presenza, gli uccelli emettevano suoni spezzati e striduli creando sonorità dissonanti, le piante si attorcigliavano tra loro nella parte superiore impedendo la vista del cielo; ma quella tenebra non mi faceva paura, anzi sentivo che mi attirava dentro di lei.

Poi improvvisamente l’atmosfera cambiò, i suoni della natura svanirono;  i rumori che sentivo adesso erano quelli prodotti dagli esseri umani. - Siamo arrivati- disse Aseri soddisfatto.
La vetta era un piazzale di forse quindici metri senza un filo erba, circondato da piccole casette costruite con nylon e frasche che assomigliavano a delle tende. A destra vidi un gruppo di donne sedute con la testa rivolta verso il cielo, pregavano a voce alta, ma dicendo cose completamente diverse. Ognuno intonava la propria preghiera ed il risultato era un parlare collettivo pieno d’estasi, a volte gioioso, a volte pieno di disperazione.
Non era la prima volta che assistevo a quel modo di pregare, tipico degli appartenenti alla chiesa pentecostale, ma di fronte a quella scena mi sentivo inquieto.
Dall’altro lato del piazzale c’era un altro gruppo, meno numeroso e più tranquillo. Avevano dei libri, leggevano, scrivevano e discutevano tra loro. Tutti i presenti ci avevano visti arrivare, ma nessuno accennava ad interrompere le proprie attività. Allora Aseri si avvicinò al gruppo dei lettori, e con molta discrezione chiese la parola. Si presentò e m’invitò a fare lo stesso. Poi, incoraggiati dagli sguardi amichevoli dei presenti, ci sedemmo accanto a loro.
Uno di loro cominciò a leggere: -“…salirono in una collina chiamata Getsèmani e Gesù disse ai suoi discepoli: sedete qui, mentre io prego. Prese con sé soltanto Pietro, Giacomo e Giovanni. Poi disse loro: la mia anima è colta da tristezza mortale, restate qui e vegliate!”
Poi l’uomo iniziò la spiegazione di quel passo del vangelo: -ma i discepoli si addormentarono! Capite? Si addormentarono nel momento più importante, quando Gesù gli aveva chiesto di vegliare! E noi? Siamo venuti fin qui a dormire o a pregare con i nostri fratelli?-Sapevo abbastanza bene di cosa si stava parlando. Quel brano del vangelo si riferiva alle ultime ore di Gesù trascorse nel giardino chiamato Getsèmani, prima di essere arrestato, condannato ed infine crocifisso. Notai che Aseri era molto attento alla discussione anche se come al solito non parlava. Nel frattempo il mio disagio era aumentato; ero stato ben accolto, ma sentivo la voglia di andarmene. Era come se quelle letture drammatiche mi avessero turbato. Cercai di non pensarci e di distrarmi, eravamo giunti in vetta e di questo ero contento.
Intanto la discussione religiosa andava avanti, stavolta era il turno di Giobbe:-“…il Signore benedisse la nuova condizione di Giobbe più della prima ed egli possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine…alla fine Dio premiò Giobbe. Egli visse ancora centoquarant’anni e vide i figli e i nipoti di quattro generazioni…morì vecchio e sazio di giorni.”-
La storia di Giobbe sembrava migliore, infatti su quel finale ricco di speranza tutti riacquistarono tono, perfino le donne dell’altro gruppo smisero di pregare ed intonarono un gospel pieno di energia. Adesso l’atmosfera era gioiosa.
Dopo pochi minuti Aseri mi guardò facendo un cenno con la testa,  era il momento di andare. Prese la parola e andò verso il centro del piazzale, chiuse gli occhi e alzò le braccia al cielo con un movimento ampio. Disse un qualcosa per ringraziare Dio e per benedire tutti i presenti, poi abbassò il capo e taque. La preghiera era conclusa e potevamo andarcene.

Iniziammo la discesa ed in breve tempo eravamo già arrivati al bivio. Passammo per una piccola scorciatoia che ci portò in una grande strada sterrata, la casa di Aseri era ormai vicina. Stanchi e affamati, le nostre gambe ancora andavano via agili. Aseri nel frattempo non mancava di descrivermi i luoghi in cui ci passavamo:
-Guarda questa pianura, durante la stagione delle piogge si riempie d’acqua, diventa come un grande lago. L’acqua è importante, chissà come sarà quest’anno la stagione delle piogge-
 

Quando arrivammo a casa, la moglie di Aseri ci venne incontro trasportando un secchio d’acqua sulla testa. Era appena rientrata, dopo aver svolto alcune mansioni domestiche. Inizialmente ci fece accomodare nel giardino dove c’erano due sedie all’ombra di un grande albero con dei fiori rossi, poi ci fece cenno di entrare, quando il cibo fu pronto.
Mi venne servito del latte caldo con del pane imburrato. Ne bevvi un po’ e intanto osservai la casa, costruita esclusivamente con tavole di legno e lamiere. Quel posto, pur essendo freddo e umido era molto accogliente.
Alle mie spalle notai un grande poster in cui erano raffigurati tutti i presidenti dell’Africa e, nella parte più bassa, c’era un riquadro speciale per quelli della Tanzania: Julius Nyerere, Benjamin Mkapa e l’attuale Jakaya Mrisho Kikwete. Chiesi ad Aseri chi dei tre avesse fatto meglio e la risposta arrivò senza esitazioni: Nyerere.

Ma lasciammo perdere la politica perché nel frattempo alcuni degli undici figli di Aseri entrarono in casa per salutarmi. Anche la moglie si sedette a tavola con noi. Ad un certo punto la signora mi fece una domanda, ma non ne compresi il significato. Le chiesi gentilmente di ripetere e così lei fece, ma niente da fare, io non conoscevo quella parola. Mi stava chiedendo se ero…se ero cosa?! Allora Dora, la figlia maggiore mi si avvicinò e dopo una pausa quasi imbarazzante, guardandomi dritto negli occhi mi disse -salvation-
Ma certo, volevano sapere la cosa più importante per loro, se ero stato salvato, cioè battezzato.
-Ndyo, hata mimi ni ukristo, lakini ninafuata kanisa la katoliki-
Il fatto che mi fossi dichiarato cristiano, ma non della chiesa pentecostale non sembrava un grande problema, infatti la signora rispose - Si shida kwa sababu Mungo ni mojia!, non importa perchè Dio è uno!
Il tempo passò in fretta venne l’ora di rientrare. Anche Aseri doveva tornare perché alle sei iniziava il turno di notte; così ce ne andammo assieme, dopo aver salutato tutti e promesso loro che un giorno sarei tornato a trovarli. E anche quella volta, come tutte le volte che uscivo da una casa dove ero stato accolto, mi sentii strano e disorientato. Davvero pensavo che non c’era niente come l’ospitalità africana.

Lungo la via del ritorno incontrammo dei signori ben vestiti, in giacca e cravatta. Si definivano evangelisti e si stavano recando ad un seminario in una chiesa li vicino. Ci invitarono a seguirli, ma rifiutammo perché altrimenti avremmo tardato troppo. 
Proseguimmo a piedi per alcuni kilometri, incontrando qualche ragazzino che con gli asini trasportava delle taniche d’acqua. Poi finalmente passò una macchina. Aseri alzò il braccio e quella si fermò. Salimmo a bordo e Mr. Benjamin, il conducente ci disse che stava andando ad Arusha, quindi ci avrebbe fatto risparmiare un sacco di strada e non avremmo dovuto prendere l’autobus.
Più tardi Aseri mi spiegò che quel signore era un prete originario di Sakila che aveva sposato un’americana. Per questo viveva negli Stati Uniti e tornava in Tanzania soltanto ogni due anni, per salutare l’ormai anziano padre.
Vicino a Kwalois, dove iniziava la strada per Imbaseni, scendemmo dall’auto e salutammo anche Mr. Benjamin. Grazie a quel passaggio adesso eravamo in anticipo, così proposi ad Aseri un piatto di carne arrostita, sapendo che avrebbe gradito. Mangiammo di gusto e ci rimettemmo in strada. Arrivati al cancello di Imbaseni S.U. le nostre strade si divisero. Lui iniziò il turno di notte, mentre io tornai a casa mia.
La giornata era stata intensa. Avevo incontrato tante persone e camminato molto, ora non vedevo l’ora di starmene per conto mio e riposare un po’. Ma mi ero scordato del fatto che pochi giorni prima il direttore mi aveva avvisato che proprio oggi una famiglia di scozzesi sarebbe arrivata ad Imbaseni.
Quando li vidi, se ne stavano sui gradini delle scale di casa mia, dove chiacchieravano e ridevano tra di loro.
Dopo le presentazioni, uno di loro mi porse il  lettore mp3 per farmi sentire la musica che stava ascoltando.
Riconobbi subito la band e il titolo della canzone: erano i Cramberries di qualche anno fa e la voce straordinaria era quella di Dolores O’Riordan.

Stava cantando Salvation.




LE PANTERE DELL' AFRICA








Magere sorride amaramente mentre mi racconta quello che e` successo l`estate scorsa. “Avevo anche fondato un piccolo giornale! Guarda, ti faccio vedere una copia. Avevo scritto delle attivita` dell’UAACC e ci avevo messo delle foto. E anche uno spazio per raccogliere le opinioni degli studenti. E adesso? Tutto cancellato. Sono stato cacciato ingiustamente. E quando ho chiesto la possibilita`di avere un confronto mi e` stato consegnato un pezzettino di carta con su scritto -Non abbiamo bisogno di te. Vattene-”Ma facciamo un passo indietro. Stati Uniti, anni `60. Pete e Charlotte sono giovani militanti delle pantere nere. Sono anni difficili per i neri d`America, ma qualcosa si stà muovendo, il cambiamento e` vicino. Pero`per raggiungere quel cambiamento bisogna combattere. E più o meno tutti combattono in quei anni. Alcuni con gli scioperi e le manifestazioni, altri con le armi . E quando si usano le armi prima o poi succede un casino.
Pete O’Neal, divenuto ricercato dalle autorità americane per ragioni più o meno note, decide di espatriare assieme alla sua giovane fidanzata, Charlotte. Dopo un paio d`anni trascorsi in Algeria, nel 1972 i due arrivano nella Tanzania di Nyerere dove trovano protezione ed una vita nuova. Ma le radici si sa, non si possono tagliare. E loro non le vogliono tagliare anzi, mantengono i rapporti con alcuni rappresentanti delle pantere degli Stati Uniti e in poco tempo diventano un simbolo. I due martiri della lotta che hanno combattuto per la causa ed ora non possono più tornare indietro.
Pete in particolare, non potrà più tornare negli USA.
Le giovani pantere, con l`aiuto di alcuni vecchi amici, fondano l`UAACC, un centro che si ispira alle idee dei leader neri della storia Americana. Martin Luther King e Malcom X in prima fila, ma anche Bob Marley, Muhammad Ali ed altri ancora.
L`UAACC e` sostanzialmente una scuola destinata agli studenti provenienti dalle famiglie più povere che non possono permettersi le costose rette richieste dalle scuole africane. Vengono gratuitamente offerti corsi d`informatica, inglese, spagnolo, pittura, musica e altro.
Inoltre, sono molte le attività extrascolastiche offerte dal centro: incontri informativi sull`HIV, spettacoli di danza tribale e concerti .

Bevendo una soda faccio qualche domanda a Magere, sperando che mi aiuti a capire meglio il funzionamento dell` United African Alliance Community Center.

-Chi sono gli insegnanti che lavorano presso l` UAACC?
“Spesso si tratta di giovani diplomati che, in attesa di trovare un lavoro vero, mettono a disposizione le loro competenze. Oppure sono disoccupati che preferiscono utilizzare il loro tempo in modo costruttivo. Invece di restare a casa vanno al centro. Nessuno di loro riceve un regolare stipendio, lavorano come volontari, ma nel caso avessero bisogno di qualcosa basterebbe chiedere a Mama Charlotte. Le cose funzionano cosi`: se tua madre si ammala, chiedi a Mama Charlotte. Se vuoi iscrivere tua sorella al college e non hai soldi abbastanza, chiedi a Mama Charlotte. Se non hai cibo per la tua famiglia, chiedi a Mama Charlotte... E se sei Africano ti capitera` spesso di trovarti in situazioni simili; quindi avrai spesso bisogno di lei. E farai tutto quello che lei ti chiederà in cambio perché lei sarà sempre disponibile ad aiutarti in caso di necessità.”
Chi organizza le attivita`?“Mama Charlotte che si occupa di tutto all`interno del centro. Dagli orari delle lezioni alle spese di manutenzione della struttura. Pete invece, pur essendo il leader indiscusso, resta in ombra. Nessun studente o insegnante e` autorizzato a parlare con lui. Per qualsiasi problema bisogna chiedere al segretario che passerà la richiesta a Mama Charlotte che a sua volta valuterà se riferire o meno a Pete. E se Pete vorrà far sapere qualcosa a qualcuno non gli parlerà direttamente, ma gli farà pervenire un pezzettino di carta con scritte le sue indicazioni.”
Come sopravvive il centro?Almeno 2 volte l`anno Mama Charlotte si reca negli States. Incontra persone, raccoglie fondi da altre organizzazioni e promuove l`immagine dell`UAACC. E poi quando torna in Tanzania porta sempre qualcosa. Computer, strumenti musicali e libri di ogni genere. Tutte cose molto preziose per gli studenti.
Come mai sei stato cacciato?Sono stato accusato di aver picchiato una ragazza. Tutti sanno che non e` vero, ma ad accusarmi e` stata Wajabu, la figlia di Pete. Quindi, no way. Il problema e` che lei e` gelosa di me. Quando Mama Charlotte e`assente a causa dei suoi frequenti viaggi negli USA, Wajabu dirige il centro; non e` mai andata a scuola e non ha nessuna competenza; non sa ne` leggere ne` scrivere, cosa mai potrà dirigere? Sostanzialmente Wajabu non accetta che ci sia qualcuno che sa fare le cose meglio di lei. Per questo ha fatto in modo io che venissi sbattuto fuori.
E Pete, cosa dice?Oh, lui vive in un altro mondo. La settimana scorsa hanno rubato un portatile, ma lui non ha detto niente. Ha soltanto fatto un cenno di disapprovazione con la testa e poi se n`e` andato con il fuoristrada. Pete è il capo, tutti lo sanno, ma lui non s`interessa mai di come vanno cose. Ma se Wajabu gli chiede la luna, lui gliela porta. In realtà Wajabu non e`veramente sua figlia. Pete e Charlotte l`hanno adottata quando aveva 10 anni. Pete e Wajabu hanno un grande feeling, sono sempre sullo stesso binario, mentre Charlotte resta esclusa da questa alleanza. I problemi dell`UAACC nascono da questo conflitto”.


UAACC, il sogno fatto a pezzi da un triangolo vecchio come il mondo. La pantera tenuta al guinzaglio da una figliastra viziata. E un delirio di onnipotenza che non lascia spazio a molte discussioni. Gli ideali di lotta e uguaglianza trasformati in una sorta di piccolo regime. Ma l`Africa ha veramente bisogno delle pantere in fuga perenne? Difficile però esprimere un giudizio netto. E` anche vero che, l`UAACC con tutti i suoi difetti e segreti mai svelati, e`comunque una manna dal cielo per molti africani; la concreta possibilità di andare a scuola e di costruirsi un futuro; un mezzo di riscatto e anche un ponte con gli USA, visto che spesso studenti ed insegnanti americani vi trascorrono le vacanze estive.
Luci ed ombre quindi, attorno all`UAACC.
E ancora un volta l`Africa sembra subire l`azione di terzi. Dei dominatori prima, delle ONG dopo. Ed ora anche le pantere in fuga.




“Ma adesso ho un lavoro! Tutti i fine settimana suono con la mia band all`Empire T.T. vicino allo shoprite. RAAASTAMAAN! Guadagno bene e non devo rispondere a nessuno. E ho una ragazza. Lei e` bianca come te! Dice che un giorno mi porterà in America, a casa sua! Ma t`immagini? Andrò in America, in America!
Perche`vuoi andare proprio in America?Ma… non capisci? In America ci sono i SOLDI. Quelli veri intendo. I dollari sono i migliori soldi del mondo. Tutti lo sanno.
Un giorno io andrò la! E magari tu verrai a trovarmi nella mia casa sulla spiaggia di Miami! Certo che verrai eh, eh?
Si, certo...

mercoledì

UAACC

martedì

Lezioni di Kiswahili



Avevo già iniziato a parlare il kiswahili, ma in modo abbastanza scorretto, come spesso succede a quelli che studiano una lingua per conto proprio. Per questo avevo bisogno di un insegnante che mi aiutasse a sistemare la grammatica. In passato mi ero rivolto anche a Senguo, insegnante di informatica di Imbaseni S.U. ,ma avevamo dovuto interrompere quasi subito perché era troppo occupato con il lavoro.
La Katerina allora, mi aveva consigliato di chiedere agli insegnanti della scuola elementare che si trovava a pochi metri da casa mia. Parlai con un paio di persone e alla fine mi accordai con Amha, un maestro ben vestito e dai modi educati. Il suo aspetto e la sua gentilezza promettevano bene, ma dopo una settimana gli chiesi di interrompere. Non era affidabile negli orari...Così chiesi ancora alla Katerina -Non preoccuparti- mi rispose -Ho trovato un altro insegnante. Verrà domani- E infatti il giorno seguente il nuovo Mwalimu si presentò. Era una signora sui sessant’anni, ex insegnante elementare in pensione. Dopo una breve chiaccherata concordammo prezzi e orari, poi se ne andò. Mi era sembrata una persona seria e preparata, ma i problemi erano due:
1-Mi ero accorto di un leggero tremore che non l’abbandonava mai. Le mani e il volto in particolare. Ma non era alcolizzata... mi chiedevo che malattia avesse. Forse un inizio di Parkinson?
2-Abitava vicino al cratere di Ngurdoto, a due passi dall’Arusha National Park, cioè abbastanza distante da casa mia, più o meno un’ora di strada, e lei aveva deciso che le lezioni le avremmo fatte a Imbaseni.

Fin dai primi incontri mi resi conto che Florence era una brava insegnante. Conosceva il suo lavoro e si presentava in orario. Alla fine della lezione non mi chiedeva mai i soldi, aspettava finchè io glieli portavo sulla tavola. Poi se ne andava salutandomi con discrezione. Mi procurai altro materiale didattico, tra cui un libro di lettura della terza elementare, in modo da potere variare le nostre lezioni.
Florence mi raccontò di essere stata allieva di alcuni insegnanti inglesi, verso la fine degli anni del colonialismo britannico. Poi, nel 1964 era diventata ufficialmente insegnante elementare, all’età di diciassette anni, dovendo fronteggiare tutti gli inconvenienti dell’epoca: -Non avevamo classi omogenee, ma soltanto gruppi di ragazzi che volevano o dovevano per forza studiare. Alcuni erano anche più grandi di me, ed erano molto indisciplinati. Non era facile, ma quello era il mio lavoro, insegnare era il mio dovere. In quei anni abitavo a Mwika, nella regione del Kilimanjaro. Era li che c’erano le scuole e gli insegnanti migliori. Furono anni duri, ma nello stesso tempo i migliori della mia vita. Nyerere, il nostro presidente, rese la scuola la priorità della nazione. Di conseguenza noi insegnanti, fummo valorizzati molto, e lo siamo tuttora.
Rimanevo colpito dai racconti dell’insegnante perchè dimostrava sempre una certa apertura mentale. Quell’anziana signora non era mai uscita dalla Tanzania, ma sembrava che conoscesse il mondo e le persone.

Un giorno, mentre tornavo da Usa River, incontrai un uomo. Si fermò in mezzo alla strada e mi disse:- Ehi mzungu, stai attento a quella vecchia, è una strega!- Li per li non mi scomposi più di tanto, ma il giorno successivo alcuni lavoratori di Imbaseni mi si avvicinarono dicendo cose del tipo:- E’ già arrivata la strega? Ma chi te l’ha mandata questa? Fai attenzione perché ho sentito dire cose strane sul suo conto…-Allora andai dalla Katerina e chiesi spiegazioni. Lei si fece una gran risata, poi mi disse che effettivamente la gente credeva che Florence fosse una strega, una mchawi: -Ma tu non preoccuparti, non ti succederà nulla, tu sei bianco- Entrai in casa e mi sedetti nel divanetto, avevo bisogno di fare il quadro della situazione.
Da quello che avevo osservato, Florence non era la tipica donna africana, ma un personaggio fuori dagli schemi.
1- Aveva lasciato suo marito
2- Pur essendo povera, sembrava economicamente indipendente
3- Aveva un livello di istruzione superiore alla maggioranza delle persone della sua nazione
4- Parlava kiswahili, kichagga, kimeru e inglese
5- Aveva uno strano tremore del quale nessuno sapeva la causa
6- Si frequentava con un bianco (cioè io) e ci guadagnava pure

Non occorreva quindi un genio per capire che agli occhi della popolazione locale, Florence poteva apparire come una persona molto strana, oppure…una strega!
Per coincidenza (ma in Africa le coincidenze mi hanno assicurato che non esistono) in quel momento un’automobile passava dietro casa mia. Una voce potente usciva dal microfono fissato sul cassone della vettura:“Da domani fino a domenica ci incontreremo nel grande campo da calcio a pregare. Tutti i pomeriggi, dalle tre alle sei. Siete tutti invitati, portate i vostri bambini, gli anziani e soprattutto i malati. Chiederemo a Dio di sconfiggere Satana! Di cacciare tutti i wachawi, sono loro la causa del nostro male, i servitori del demonio…Ripetete con me VATTENE SATANA, VATTENEEEEEEE! ESCI, ESCI, ESCI, ESCI……”
Ritenevo terribile quella voce e quell’urlante modo di parlare. Sapevo che prima di esprimere giudizi affrettati bisognava tenere presente gli elementi del costume locale, ma quelle grida forsennate mi sembravano la parte peggiore di una società ancora poco istruita e vittima del predicatore di turno.
Ero triste nel vedere che per qualcuno la religione non era ricerca spirituale, ma un occasione per plagiare le menti deboli e guadagnare denaro. Ma tutto questo faceva parte del gioco, l’Africa che avevo conosciuto era anche questa.
Passata la macchina urlante, tornai al problema di Florence.
Ne parlai anche con altre persone e nessuno mi mise seriamente in guardia, così decisi che nulla sarebbe cambiato, per il momento avrei continuato a prendere lezioni senza problemi. Anzi, feci di più. Un giorno Florence m’invitò a casa sua, ed io naturalmente accettai.

Partimmo da Imbaseni dopo la lezione, in una giornata limpida e ventosa.  Quella mattina avevamo letto un brano tratto dal mio libro di lettura:
Era la storia di un cacciatore che, trasportando una preda uccisa con la propria lancia, sulla via del ritorno aveva incontrato un vecchio. Il cacciatore aveva chiesto al vecchio di prestargli il coltello, in modo da poter squartare l’animale e renderne così più facile il trasporto. Il vecchio aveva estratto il coltello ed era stato gentile, ma la sua cortesia non era stata ripagata.
A lavoro finito il cacciatore se ne era andato senza lasciarli nemmeno un piccolo pezzo di carne.
Giunto a casa il cacciatore salutò la moglie e i figli, orgoglioso del cibo che aveva portato loro. Ma da quel momento iniziò a sentire una voce che non lo avrebbe più lasciato.
Quella voce era diventata un tormento al punto che il cacciatore credette d’impazzire! Continuava a sentirla a tutte le ore, anche di notte!
Così, stremato e pieno di terrore, decise di parlarne a sua moglie. Le raccontò del vecchio incontrato nella foresta, del coltello e del favore non ricambiato. La moglie, dopo aver ascoltato attentamente gli disse: -Torna nella foresta e trova il vecchio, portagli questo miele in segno di amicizia e chiedigli perdono- Il cacciatore partì immediatamente e, dopo due giorni, ritrovò il vecchio nello stesso punto in cui l’aveva lasciato. Se ne stava seduto, come quel giorno. Sembrava quasi che lo stesse aspettando. Con molta calma alzò la testa e aspettò che fosse il cacciatore a fare il primo passo.
E così fu:
-Perdonami Mzee (espressione di rispetto per rivolgersi ad un anziano), ho sbagliato! Sono stato egoista, ma non posso vivere con questo peso sulla coscienza. Ti prego, perdonami! Accetta questo miele come dono da parte della mia famiglia.
Il vecchio prese il miele e disse: ti ringrazio cacciatore, da questo momento siamo diventati amici, va in pace.
E fu così che il cacciatore tornò alla sua dimora, la voce che lo tormentava svanì, e la vita riprese nella normalità.
Un giorno però il figlio maggiore si rivolse al padre:- Ma quella voce, che cosa ti diceva? Dimmi padre, voglio sapere!-
-Figlio mio, quella voce diceva… utanikumbuka! (ti ricorderai di me)
Tutte le storie contenute nel mio libro erano così.
A volte, un semplice libro di lettura per studenti può contenere elementi preziosi per capire la vita e la storia di un popolo. Forse bisognerebbe partire da li per comprendere le altre culture, le genti di altri continenti, e lasciare temporaneamente da parte i grandi libri di saggistica sull’integrazione e l’antropologia.

Ma torniamo alla storia della strega.
Ricordo che durante il tragitto incrociavo sguardi curiosi, occhi che si scostavano dalle finestre, porte che si aprivano senza che poi apparisse nessuno, ma non ero preoccupato, anzi avevo un atteggiamento quasi di sfida. Dentro di me pensavo: Ah Ah! Guardate gente. Oggi vado a pranzo con la Strega! Si si, proprio la STREGA! Venite a vedere...
Ma sapevo anche che dovevo stare attento e non sottovalutare la situazione. I Wachawi esistevano davvero e in Tanzania costituivano un problema reale. Le loro storie riempivano i giornali di cronaca nera. Di solito non si sporcavano le mani direttamente, preferivano commissionare omicidi in modo da procurarsi cadaveri da sezionare, con l’obbiettivo di fabbricare e vendere pozioni miracolose. Le cronache dicevano che le vittime preferite erano gli albinos, persone innaturalmente bianche, ma con tratti africani al cento per cento. Per loro la parola wachawi significava orrore, morte e segregazione.

Verso le due del pomeriggio arrivammo a destinazione. Entrai in casa di Florence e non notai nulla di strano. Appeso al muro c’era un poster del papa e la casa era molto semplice. Mi sentivo tranquillo e non avvertivo situazioni di pericolo imminente.
Mangiai due pannocchie arrostite, bevvi il the e parlai con un ragazzino che nel frattempo si era intrufolato in casa; me ne stetti tranquillo nel comodo divano. Tutto era normale e quando fu l’ora me ne andai.
Quando tornai ad Imbaseni trovai i lavoratori seduti sulle scale dell’ufficio principale. Mancava l’elettricità e così alcuni di loro si erano fermati a chiacchierare. Inizialmente nessuno mi chiese nulla, ma sapevo che tutti morivano dalla curiosità di sapere com’era andata, che cosa avevo fatto e cosa avessi visto. Così per divertirmi un po’ assunsi un atteggiamento da folle e cercando di mimare la scena dissi: -ed ad un certo punto quella strega si avvicinò con il coltello e cercò di tagliarmi una mano! Si Si! Vi dico che è così! Ne conserva molte di mani mozzate dentro quella casa!! Le ho viste con i miei occhi…Di fronte a quella ridicola sceneggiata risero tutti, poi tornò l’elettricità e non ci furono altri discorsi, ognuno tornò al proprio lavoro. Io invece andai dritto dalla Katerina, la persona che consideravo l’origine del problema. -Ehi tu, senti un po’, ma con tutti gli insegnanti che conoscevi proprio una strega dovevi portarmi? Non è che l’hai fatto apposta per divertirti alle mie spalle? Hai visto che casino hai combinato? Io non credo che l’insegnante sia una strega, ma la maggioranza della gente sì.
-No, no, scusami tanto. Non volevo crearti problemi, ma non preoccuparti, tu non avrai mai problemi con lei...
Non capivo bene il significato di quell’affermazione, ma sapevo che non dovevo indagare troppo. Avevo visto che spesso in Africa le credenze popolari, la religione e la stregoneria si mescolavano diventando una cosa unica, un po’ folkloristica, ma anche molto pericolosa.    
Perciò decisi di continuare le lezioni, senza preoccuparmi delle chiacchiere della gente.
Finchè un giorno…Florence non si presentò più.
Pensai ad un problema di salute, così provai a chiamarla al cellulare.

Il numero però risultava inesistente...