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martedì

Salvation in Sakila -featuring Dolores O'Riordan




Si vedeva una grande pianura ricoperta di verde, una leggera foschia all’orizzonte e una strisciolina grigia sulla quale transitavano delle minuscole vetture. Quella era la strada asfaltata che da Kikatiti arrivava a Moshi e proseguiva poi verso Same.
Erano le otto del mattino ed io e Aseri eravamo in viaggio, diretti in una zona chiamata Sakila, dove si trovava anche l’omonima montagna che arrivava a circa milleseicento metri metri di altezza.
La forma rotondeggiante di quella montagna aveva da sempre attirato la mia attenzione. Tutte le volte che salivo in un autobus per andare da qualche parte, prima o poi me la vedevo passare accanto. Così, avevo chiesto informazioni agli abitanti di Imbaseni ed avevo scoperto un particolare interessante. Quella non era soltanto una montagna, ma anche un luogo di culto. Mi era stato detto che quasi tutti i giorni dell’anno qualcuno saliva in vetta a pregare. Alcuni venivano dalle zone circostanti, altri perfino da Nairobi. Ci stavano per poche ore, giorni o anche una settimana. La gente rimaneva lassù senza scorte di cibo o acqua, il digiuno rendeva quel pellegrinaggio ancora più importante. Quella storia mi aveva incuriosito ulteriormente, così, sapendo che Aseri abitava da quelle parti gli avevo chiesto di venire con me fino alla vetta. Lui era rimasto contento della mia richiesta e mi aveva anche invitato a passare per casa sua nella via del ritorno.
Conoscevo Aseri perché lavorava come guardiano notturno della scuola di Imbaseni. Iniziava il turno alle sei del pomeriggio e finiva alle sei del mattino. Tutte le notti lo sentivo passare sotto la finestra della stanza dove dormivo. Ciò significava che il giro di ronda era quasi finito e che il nuovo giorno era alle porte. Consideravo il suo lavoro molto duro perché in quelle zone durante la notte la temperatura scendeva abbastanza rispetto al giorno. E poi il suo stipendio, come quello degli altri guardiani, era molto basso, sui cinquantamila tz sh al mese. Circa trenta euro per mantenere moglie e figli. Di sicuro la sua vita non era facile.
Aseri era un uomo taciturno, ma buono e disponibile. Dato il suo aspetto magro e particolarmente scavato in volto, la gente chiacchierava, diceva che era malato e che probabilmente aveva il virus, cioè l’AIDS.

Un paio d’ore dopo la partenza avevamo già fatto molta strada. Superati i villaggi di Leray e Njeku ci trovavamo ora a percorrere una breve salita che ci avrebbe portato alla base della montagna da raggiungere. Ci fermammo a riposare, seduti su dei sassi, e notai che i bambini che passavano rimanevano particolarmente stupiti della mia presenza, o meglio del fatto che ero bianco. Molti di loro non ne avevano ancora visto uno, mi spiegò poi Aseri, ma ciò non era strano, ci trovavamo abbastanza distanti dalla strada principale e di stranieri in quei posti non ne venivano mai. Aseri mi raccontò che molta della gente che incontravamo non parlava Kiswahili, la lingua nazionale, ma soltanto Kimeru, il dialetto della tribù dei Wameru.
Ad un certo punto arrivammo ad un bivio:
-Laggiù c’è casa mia!- disse Aseri indicandomi una valle dove si scorgevano le lamiere dei tetti delle case.
Svoltammo a sinistra ed iniziammo la salita vera e propria.
Da subito mi resi conto di aver sottovalutato l’escursione. Il sentiero era estremamente ripido e al limite della praticabilità a causa della fiorente vegetazione. Il cielo nel frattempo si era coperto di nubi, sembrava che di li a poco sarebbe arrivata la pioggia. Il tal caso immaginavo che ci saremmo trovati in un mare di fango...
Ma mentre io annaspavo con il cuore a mille e mi preoccupavo del meteo, Aseri procedeva silenzioso senza mostrare particolari difficoltà. Era un grande camminatore, probabilmente lo era diventato per necessità visto che tutti i giorni per venire a lavorare camminava per un totale di cinque ore, tra andata e ritorno. Altro che AIDS pensai, con tutta quella strada da percorrere era normale che fosse così magro...
Eravamo ancora lontani dalla cima, quando mi resi conto che davvero ci trovavamo nel cuore della foresta africana.
La grande ispiratrice di antiche leggende e custode dei segreti dell’Africa più profonda.
Non si poteva non rimanere affascinati da quel luogo.
Qualche piccola scimmia saltava inquieta, preoccupata forse della nostra presenza, gli uccelli emettevano suoni spezzati e striduli creando sonorità dissonanti, le piante si attorcigliavano tra loro nella parte superiore impedendo la vista del cielo; ma quella tenebra non mi faceva paura, anzi sentivo che mi attirava dentro di lei.

Poi improvvisamente l’atmosfera cambiò, i suoni della natura svanirono;  i rumori che sentivo adesso erano quelli prodotti dagli esseri umani. - Siamo arrivati- disse Aseri soddisfatto.
La vetta era un piazzale di forse quindici metri senza un filo erba, circondato da piccole casette costruite con nylon e frasche che assomigliavano a delle tende. A destra vidi un gruppo di donne sedute con la testa rivolta verso il cielo, pregavano a voce alta, ma dicendo cose completamente diverse. Ognuno intonava la propria preghiera ed il risultato era un parlare collettivo pieno d’estasi, a volte gioioso, a volte pieno di disperazione.
Non era la prima volta che assistevo a quel modo di pregare, tipico degli appartenenti alla chiesa pentecostale, ma di fronte a quella scena mi sentivo inquieto.
Dall’altro lato del piazzale c’era un altro gruppo, meno numeroso e più tranquillo. Avevano dei libri, leggevano, scrivevano e discutevano tra loro. Tutti i presenti ci avevano visti arrivare, ma nessuno accennava ad interrompere le proprie attività. Allora Aseri si avvicinò al gruppo dei lettori, e con molta discrezione chiese la parola. Si presentò e m’invitò a fare lo stesso. Poi, incoraggiati dagli sguardi amichevoli dei presenti, ci sedemmo accanto a loro.
Uno di loro cominciò a leggere: -“…salirono in una collina chiamata Getsèmani e Gesù disse ai suoi discepoli: sedete qui, mentre io prego. Prese con sé soltanto Pietro, Giacomo e Giovanni. Poi disse loro: la mia anima è colta da tristezza mortale, restate qui e vegliate!”
Poi l’uomo iniziò la spiegazione di quel passo del vangelo: -ma i discepoli si addormentarono! Capite? Si addormentarono nel momento più importante, quando Gesù gli aveva chiesto di vegliare! E noi? Siamo venuti fin qui a dormire o a pregare con i nostri fratelli?-Sapevo abbastanza bene di cosa si stava parlando. Quel brano del vangelo si riferiva alle ultime ore di Gesù trascorse nel giardino chiamato Getsèmani, prima di essere arrestato, condannato ed infine crocifisso. Notai che Aseri era molto attento alla discussione anche se come al solito non parlava. Nel frattempo il mio disagio era aumentato; ero stato ben accolto, ma sentivo la voglia di andarmene. Era come se quelle letture drammatiche mi avessero turbato. Cercai di non pensarci e di distrarmi, eravamo giunti in vetta e di questo ero contento.
Intanto la discussione religiosa andava avanti, stavolta era il turno di Giobbe:-“…il Signore benedisse la nuova condizione di Giobbe più della prima ed egli possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine…alla fine Dio premiò Giobbe. Egli visse ancora centoquarant’anni e vide i figli e i nipoti di quattro generazioni…morì vecchio e sazio di giorni.”-
La storia di Giobbe sembrava migliore, infatti su quel finale ricco di speranza tutti riacquistarono tono, perfino le donne dell’altro gruppo smisero di pregare ed intonarono un gospel pieno di energia. Adesso l’atmosfera era gioiosa.
Dopo pochi minuti Aseri mi guardò facendo un cenno con la testa,  era il momento di andare. Prese la parola e andò verso il centro del piazzale, chiuse gli occhi e alzò le braccia al cielo con un movimento ampio. Disse un qualcosa per ringraziare Dio e per benedire tutti i presenti, poi abbassò il capo e taque. La preghiera era conclusa e potevamo andarcene.

Iniziammo la discesa ed in breve tempo eravamo già arrivati al bivio. Passammo per una piccola scorciatoia che ci portò in una grande strada sterrata, la casa di Aseri era ormai vicina. Stanchi e affamati, le nostre gambe ancora andavano via agili. Aseri nel frattempo non mancava di descrivermi i luoghi in cui ci passavamo:
-Guarda questa pianura, durante la stagione delle piogge si riempie d’acqua, diventa come un grande lago. L’acqua è importante, chissà come sarà quest’anno la stagione delle piogge-
 

Quando arrivammo a casa, la moglie di Aseri ci venne incontro trasportando un secchio d’acqua sulla testa. Era appena rientrata, dopo aver svolto alcune mansioni domestiche. Inizialmente ci fece accomodare nel giardino dove c’erano due sedie all’ombra di un grande albero con dei fiori rossi, poi ci fece cenno di entrare, quando il cibo fu pronto.
Mi venne servito del latte caldo con del pane imburrato. Ne bevvi un po’ e intanto osservai la casa, costruita esclusivamente con tavole di legno e lamiere. Quel posto, pur essendo freddo e umido era molto accogliente.
Alle mie spalle notai un grande poster in cui erano raffigurati tutti i presidenti dell’Africa e, nella parte più bassa, c’era un riquadro speciale per quelli della Tanzania: Julius Nyerere, Benjamin Mkapa e l’attuale Jakaya Mrisho Kikwete. Chiesi ad Aseri chi dei tre avesse fatto meglio e la risposta arrivò senza esitazioni: Nyerere.

Ma lasciammo perdere la politica perché nel frattempo alcuni degli undici figli di Aseri entrarono in casa per salutarmi. Anche la moglie si sedette a tavola con noi. Ad un certo punto la signora mi fece una domanda, ma non ne compresi il significato. Le chiesi gentilmente di ripetere e così lei fece, ma niente da fare, io non conoscevo quella parola. Mi stava chiedendo se ero…se ero cosa?! Allora Dora, la figlia maggiore mi si avvicinò e dopo una pausa quasi imbarazzante, guardandomi dritto negli occhi mi disse -salvation-
Ma certo, volevano sapere la cosa più importante per loro, se ero stato salvato, cioè battezzato.
-Ndyo, hata mimi ni ukristo, lakini ninafuata kanisa la katoliki-
Il fatto che mi fossi dichiarato cristiano, ma non della chiesa pentecostale non sembrava un grande problema, infatti la signora rispose - Si shida kwa sababu Mungo ni mojia!, non importa perchè Dio è uno!
Il tempo passò in fretta venne l’ora di rientrare. Anche Aseri doveva tornare perché alle sei iniziava il turno di notte; così ce ne andammo assieme, dopo aver salutato tutti e promesso loro che un giorno sarei tornato a trovarli. E anche quella volta, come tutte le volte che uscivo da una casa dove ero stato accolto, mi sentii strano e disorientato. Davvero pensavo che non c’era niente come l’ospitalità africana.

Lungo la via del ritorno incontrammo dei signori ben vestiti, in giacca e cravatta. Si definivano evangelisti e si stavano recando ad un seminario in una chiesa li vicino. Ci invitarono a seguirli, ma rifiutammo perché altrimenti avremmo tardato troppo. 
Proseguimmo a piedi per alcuni kilometri, incontrando qualche ragazzino che con gli asini trasportava delle taniche d’acqua. Poi finalmente passò una macchina. Aseri alzò il braccio e quella si fermò. Salimmo a bordo e Mr. Benjamin, il conducente ci disse che stava andando ad Arusha, quindi ci avrebbe fatto risparmiare un sacco di strada e non avremmo dovuto prendere l’autobus.
Più tardi Aseri mi spiegò che quel signore era un prete originario di Sakila che aveva sposato un’americana. Per questo viveva negli Stati Uniti e tornava in Tanzania soltanto ogni due anni, per salutare l’ormai anziano padre.
Vicino a Kwalois, dove iniziava la strada per Imbaseni, scendemmo dall’auto e salutammo anche Mr. Benjamin. Grazie a quel passaggio adesso eravamo in anticipo, così proposi ad Aseri un piatto di carne arrostita, sapendo che avrebbe gradito. Mangiammo di gusto e ci rimettemmo in strada. Arrivati al cancello di Imbaseni S.U. le nostre strade si divisero. Lui iniziò il turno di notte, mentre io tornai a casa mia.
La giornata era stata intensa. Avevo incontrato tante persone e camminato molto, ora non vedevo l’ora di starmene per conto mio e riposare un po’. Ma mi ero scordato del fatto che pochi giorni prima il direttore mi aveva avvisato che proprio oggi una famiglia di scozzesi sarebbe arrivata ad Imbaseni.
Quando li vidi, se ne stavano sui gradini delle scale di casa mia, dove chiacchieravano e ridevano tra di loro.
Dopo le presentazioni, uno di loro mi porse il  lettore mp3 per farmi sentire la musica che stava ascoltando.
Riconobbi subito la band e il titolo della canzone: erano i Cramberries di qualche anno fa e la voce straordinaria era quella di Dolores O’Riordan.

Stava cantando Salvation.