Tornavo a casa dopo un intero pomeriggio
passato nella township chiamata Usa River, a circa 20 km da Arusha. Avevo
tentato di leggere la mia posta e dare un’occhiata a qualche giornale, ma
niente da fare: in Tanzania l’utilizzo del web sembrava ancora un sogno, anche
se gli internet cafè erano abbastanza numerosi.
-Funziona bene oggi la rete?
-Certo, come sempre- rispondeva
il commesso sorridendo e mostrandomi il pezzo di carta attaccato al muro dove
era indicato il prezzo: 1000tzsh per 30 minuti, 1500 per un’ora. In realtà si
trattava spesso di una truffa; o meglio di una quasi totale perdita di tempo,
visto che la connessione andava e veniva e l’unico vero risultato che si
otteneva era quello di spazientirsi e avere voglia di prendere a pugni quei
polverosi computer di terza mano. Ma ormai ci ero abituato e non mi arrabbiavo
affatto. Anzi, quasi mi divertivo ad osservare la scena quando un qualsiasi
mzungu (come me) entrava fiducioso all’Usa Plaza e dopo mezz’ora di tentativi
se ne andava bestemmiando, accontentandosi di aver dato una sbirciatina a
facebook. Ma allo stesso tempo cercavo di capire quel tipo di frustrazione:
sembrava che per l’occidentale in Africa, internet fosse l’antidodo alla noia.
In ogni situazione c’erano attese interminabili, lunghe pause e afa.
Quindi, tutto quel tempo libero andava per forza occupato, no way. I turisti di
Arusha ad esempio, aspettando di andare a vedere gli animali, trascorrevano le
giornate tra lo shoprite e gli inoperosi internet cafè.
Ero già arrivato alla fermata
dell’autobus quando squillò il telefono. Era William, il computer teacher. Mi
chiedeva di accompagnarlo fino a Maji Ya Chai perchè doveva sistemare il
portatile di un cliente. Non avevo molta voglia di andarci, ma in quel
pomeriggio così inconludente quella proposta mi sembrava un’occasione di
riscatto. Così l’aspettai e poi andammo assieme.
Maji Ya Chai significa letteralmente acqua
del the, questo per via del colore del fiume che attraversa la zona. Quel
luogo era un agglomerato di case malandate e baracche dal quale usciva un
forte odore di alcol.
La scena davanti a me era questa:
1-Uomini con gli occhi iniettati di sangue, camminavano a zig-zag e mi
salutavano mescolando inglese e swahili. 2-Donne sedute a terra che cercavano
di vendere la frutta del giorno rimasta nel cesto. 3-Bambini incuranti di
quello che accadeva intorno a loro, giocavano con una palla di stracci,
ridevano, gridavano, saltavano e si azzuffavano. Erano felici, e guardarli era
uno spettacolo.
Rimasi stupito, quando arrivammo a
destinazione. Eravamo di fronte ad una bella casa con giardino, una costruzione
che stonava abbastanza con l’ambiente circostante. Il cliente di Williams era
la direttrice della scuola di Ngongongare, una secondary school che si trova
nell’omonimo villaggio, poco distante dal cratere di Ngurudoto. Mangiando la
frutta che mi era stata offerta (tikiti=anguria), chiesi alla signora quanti
studenti ci fossero nella sua scuola.
-Sono più di 500-
-Però, molti!-
-Oh no, 1000-2000 sono
molti! In Tanzania gli studenti non mancano, il problema sono gli insegnanti,
quelli non sono mai abbastanza. Ne abbiamo bisogno, ma non è sempre facile
trovare persone preparate. E questo problema si riflette sugli studenti. L’anno
scorso per esempio, ho cacciato quattro ragazzi, non sapevano neanche leggere e
scrivere...colpa dei loro vecchi insegnanti! Che cosa gli hanno insegnato negli
anni precedenti?!
Capivo quella situazione. A Imbaseni
avevo conosciuto studenti che dopo un anno di corso non sapevano utilizzare
correttamente il mouse; durante tutte le lezioni avevano usato il computer
solamente per guardare video e dvd di telenovele insulse, approfittando del
menefreghismo del loro insegnante.
Mentre William procedeva alla riparazione
del portatile, la Tv mostrava la consegna dei diplomi in una scuola. Si vedeva
un gruppo di giovani studenti che, con l’intento di animare la manifestazione,
eseguivano esercizi ginnici di una certa difficoltà: salti mortali, capriole e
strane composizioni circensi che attiravano l’attenzione del pubblico. Un uomo
con occhiali da sole e microfono incitava gli acrobati: -Guardate, ce la
fanno, ce la fanno! Si, possono anche questo!- Poi era il turno dell’ospite
più importante, cioè un direttore di banca di Arusha che prometteva
finanziamenti e sponsorizzazioni. La gente allora applaudiva, gridava e
ringraziava di cuore il benefattore.
Dopo circa un’ora, il computer era stato
riparato ed io e William eravamo già sulla via del ritorno. Avevamo preso la
stradina che passava in mezzo ai campi, per evitare il polverone della via
principale. Camminare in quella natura era piacevole, il mt.Meru dominava
dall’alto e si sentiva il profumo dell’erba appena tagliata. Eravamo nel mezzo
di piccole piantagioni di caffè, banani e canne da zucchero, gli ultimi raggi
di sole filtravano tra la fitta vegetazione... E poi, improvvisamente un muro.
Tre metri di cemento circondavano una
residenza del quale non si poteva vedere ne la forma, ne chi ci abitasse. Una
rigogliosa boungaville faceva sembrare quel muro più amichevole, ma quando si
arrivava al cancello principale non c’erano dubbi. Il cartello diceva response
armed e poi hatari mbua mkali (pericolo cane feroce).
Il mio pensiero andò subito al Sudafrica
che avevo visitato in passato. Quei cartelli infatti, erano molto comuni nei
quartieri periferici di città come Johannesburg e Cape Town.
William allora mi raccontò:
-A metà degli anni novanta un olandese
comprò un pezzo di terra e ci costruì la sua casa. Poi mise qualche annuncio
nei maggiori giornali sudafricani. Invitava i suoi connazionali desiderosi di
vivere in Africa a raggiungerlo e condividere quella splendida terra. Oggi
dietro queste mura vivono circa 30 persone, una piccola comunità. Ho sentito
dire che alcuni di loro lavorano con i turisti, organizzano spedizioni di
caccia nei parchi naturali- La storia di quell’olandese era molto comune da
quelle parti. Dopo la fine dell’apartheid in Sudafrica molti bianchi,
spaventati da una possibile ritorsione violenta (successivamente avvenuta, migliaia di agricoltori ammazzati) avevano preferito andarsene, cercando un
altro paese dove poter continuare il proprio stile di vita. Sarebbe stato
troppo difficile dover andare nella poco amata Europa... Quindi, per alcuni la
scelta era stata la Tanzania, terra di persone ospitali e animali di grossa
taglia.
-Certo, vivono un po’
per conto loro, ma non hanno problemi con nessuno. Hanno anche sponsorizzato la
costruzione di una scuola. I loro dipendenti dicono che sono tranquilli e
che pagano regolarmente gli stipendi, quindi è tutto ok...
Molte volte avevo incrociato sulla strada
quelle persone. Passavano con le loro Jeep verde militare, mai un saluto, mai
un passaggio. A volte uno sguardo frettoloso, a volte nemmeno quello. Tuttavia,
non conoscendoli di persona, non potevo esprimere su di loro un giudizio
negativo; ma quei personaggi mi sembravano i residui del grande trek
iniziato in Sudafrica quasi due secoli fa. Verso la metà del 1800, i
Boeri, pionieri di origine olandese, francese e tedesca, iniziarono una
migrazione che durò circa un ventennio. Un viaggio verso la terra promessa che
per alcuni terminò nel nord-est dell'odierno Sudafrica, per altri in Mozambico
e in Zimbawe. I Boeri se ne andavano dalla colonia di Citta' del Capo
perchè non poteva accettare che l’amministratore inglese avesse abolito
la schiavitù e imposto le proprie regole...Ecco che dopo la fine dell’apartheid
il fenomeno si era ripetuto, anche se con motivazioni diverse. E forse ancora
oggi, per qualcuno il grande trek doveva ancora terminare.
Quella residenza blindata di Maji Ya Chai
non era l’unico esempio che avevo visto. Ad Arusha, poco distante
dall’aeroporto c’era il Freedkin Recreation Centre, qualche ettaro di
recinzioni che proteggevano un maneggio di splendidi cavalli, negozi, piccole
attività commerciali, alberghi con piscina, una birreria in stile irlandese e
un campo da rugby. Quella volta al Freedkin ci ero arrivato per caso, avevo
preso un taxi per andare in un altro posto... ma alla fine mi ero trovato
davanti alla birreria. Così, non avevo esitato ad entrare e bere una tusker
gelata. Ma ricordo che dopo la birra, non vedevo l’ora di andarmene. Quel posto
era troppo lontano dall’Africa che preferivo.
-Un giorno vorrei
anch’io poter comprare un pezzo di terra come questo-disse Williams mentre
ci lasciavamo alle spalle quelle mura imponenti.
-Per costruirci una
casa?-
-Certo, e poi farei
come l’olandese, chiederei a persone come te di venire ad abitarci. Così potrei
avere dei buoni vicini di casa, potrei fidarmi di loro e collaborare per
iniziare qualche affare.
-Che genere di
affare?-
-I polli! Si, i polli sono un buon business!
Vorrei comprarne cinquanta, cento, e poi altri cento, duecento,trecento,
quattrocento, cinquecento...