Translate

domenica

Dala-Dala (considerazioni sulla viabilità e breve storia di sacramento)






In Tanzania, sono ancora poche le persone che possono permettersi l’automobile, quindi i trasporti pubblici devono essere efficienti e alla portata di tutti.  
I dala-dala rispondono a questa necessità perchè sono abbastanza economici e arrivano dappertutto, anche nelle zone più isolate. I posti a sedere sono circa 16-20, ma questi piccoli mezzi ovali non si muovono se prima non fanno il pieno assoluto. La benzina costa, quindi bisogna far salire il maggior numero di passeggeri. Almeno 25, al massimo 30. I dala-dala di solito sono di colore bianco, con una striscia verde che attraversa la carrozzeria a livello dei fari. Nella parte anteriore c’è scritto il nome della destinazione, in modo che le gente possa individuare il bus che deve prendere.
Il condacta, così viene chiamato (dall'inglese storpiato) l’uomo che si occupa di chiedere i soldi ai passeggeri, in prossimità delle fermate, grida ripetutamente il nome della destinazione. In questo modo anche gli analfabeti sapranno dove dirigersi.
Il condacta è un personaggio abbastanza caratteristico e sembra la vedetta di una nave pirata. Viaggia sempre con metà corpo fuori dal finestrino, rientrando con una certa abilità ogni volta che bisogna aprire il portellone. Con i passeggeri deve essere deciso, a volte spietato altrimenti quelli non pagano, oppure s’inventano qualche scusa per avere uno sconto. Ma il condacta non è mica stupido! Si fa pagare in anticipo, appena la persona sale. Paghi? Ok, puoi salire. Stai frignando per uno sconto? Sali solo se quel giorno i passeggeri sono davvero pochi e bisogna rastrellare monetine.
Il dala-dala è indubbiamente il padrone delle strade tanzaniane. Ho avuto modo di osservare alcune bizzarre situazioni:
1.Se bisogna fare benzina, motore acceso
2.Se si rimane bloccati nel traffico per 15 minuti, motore acceso
3.Se ci si ferma perchè non ci sono passeggeri e bisogna aspettare molto, motore acceso
4.Se bisogna gonfiare una ruota, motore acceso e i passeggeri non vengono fatti scendere per rendere possibile l’operazione
(x)Se un pedone cerca di attraversare la strada, ecco che l’autista lo avverte con il clackson: significa non provarci.
(y)Se un pedone sta già attraversando la strada, l’autista lo insulta con un gesto: significa torna subito indietro, la prossima volta ti prendo sotto.
(z)Se un pedone ha già attraversato la strada facendo attenzione a non essere investito, l’autista scende e insegue la preda: significa adesso ti do una lezione. Diavolo, poteva essere un incidente!

La gente però più di tanto non si scompone, le cose vanno così e basta. Anche quando il condacta insiste per far salire altra gente mentre i passeggeri si stanno già schiacciando tra loro come sardine, nessuno protesta. Però ricordo che un giorno, mentre andavo ad Arusha con il dala, un anziano signore mi aveva detto: -Una volta non era così, c’era più rispetto! Un giovane non si sarebbe mai permesso di chiedermi i soldi del biglietto senza prima avermi salutato correttamente. E poi tutte quelle spinte per salire e  avere il posto, questi giovani sembrano una mandria di vacche impazzite! Una volta non era così...-

In città, nei negozi per turisti, tra i vari articoli in vendita ci sono magliette con il disegno del piccolo bus con la scritta -Sono sopravissuto al dala-dala!- Quella vignetta, non è una semplice ironia per occidentali, dice proprio la verità! E gli africani lo sanno benissimo, infatti su tutti gli autobus ci sono scritte del tipo Gesù è il migliore oppure Dio è veramente potente- Questo affidarsi al divino, non è mania religiosa, ma razionale timore di quello che potrebbe succedere in caso di incidente.
Baraka, un ragazzo di Mererani, dice che i dala dala sono pericolosi: -A volte mi capita di utilizzarli, ma ne ho paura. Non ce la faccio a rimanere seduto sapendo che alla guida ci sono quei spericolati senza patente...Vanno troppo forte e poi sono sempre troppo carichi. Basta un piccolo tamponamento e...- Dai giornali locali e dalla televisione si apprende che il numero di sinistri (e di morti) sul tratto Arusha-Moshi è altissimo. La strada è completamente dritta e asfaltata, per questo le auto corrono. Il governo allora ha deciso di intervenire mettendo sulle strade enormi dossi artificiali e molti posti di blocco. Il risultato però è che gli incidenti non sono diminuiti, in compenso i poliziotti, grazie alle bustarelle, riescono finalmente a portare a casa uno stipendio ragionevole...
Ma in fondo, è anche piacevole viaggiare sul dala-dala!
Con quei piccoli ovali bianchi si arriva dappertutto, e non importa se si sta un po’ stretti, perchè forse alla prossima fermata qualcuno scenderà e allora si starà meglio. La gente chiacchera e ascolta la bella musica che esce dall’autoradio. Dai finestrini arriva una fresca brezza che aiuta a sopportare il caldo...

Sacramento
Nel 2007, durante il mio viaggio da Arusha fino a Città del capo, di dala-dala ne ho usati parecchi, anche per tratti abbastanza lunghi. In particolare, me ne è rimasto impresso uno che mi doveva portare da Karonga a Mzuzu, nel Malawi. Ricordo che mi trovavo alla stazione in cerca di un mezzo di trasporto, quando un signore ben vestito che portava al collo una grossa croce mi aveva informato che l’autobus che dovevo prendere si chiamava Sacramento. Non ho mai saputo il motivo di quel nome e ne sono ancora curioso.
-Si, ma a che ora parte?- avevo chiesto impaziente.
-Tra un quarto d’ora- mi era stato risposto dal capo stazione per tutta la mattinata.
Colore azzurro, immagine sacra dipinta in alto a destra, parabrezza crepato in basso a sinistra,  Sacramento era li, parcheggiato davanti a me e non si muoveva di un millimetro. Quel nome mi sembrava strano, per me non era affatto un riferimento religioso, mi faceva piuttosto pensare ad un’imprecazione! Ero infatti molto spazientito; e come me, gli altri viaggiatori, stanchi di starsene seduti ad aspettare, facevano la spola tra il bar e le panchine di cemento della squallida stazione.
Alla fine, dopo ore di inutile attesa, ci venne comunicato che quel giorno, l’ormai mitico Sacramento non sarebbe mai partito. Più tardi allora, salii su un anonimo autobus indicatomi dal capo stazione e finalmente partii per Mzuzu. Quella fu una delle giornate più memorabili del mio viaggio.
E ancora oggi, ogni volta che mi capita di vedere una stazione delle corriere, mi viene in mente quel Sacramento di autobus che mi toccò aspettare tutta la mattina...

venerdì

MWIKA

Ndizi

giovedì

Dodoma





1-Mji mkuu (the capital city)
Per essere la capitale della nazione lasciava a desiderare. Arrivando con l’autobus, prima della stazione, avevo visto il bunge, cioè il parlamento. Quella costruzione dall’architettura strana era l’unica vera ragione che faceva di Dodoma una città importante; ma per il resto, non c’era un bel nulla, se non una forte brezza dall’alba fino al tramonto.
Tuttavia decisi che mi sarei fermato li qualche giorno, volevo uscire dal centro e visitare le periferie. In fondo, quella desolazione mi piaceva, la pianura di quei luoghi permetteva di guardare l’orizzonte senza capire dove si arrivava.

Mi sistemai in una guest house chiamata Kibo, poco prima del quartiere area-c. Stanze pulite, acqua calda e colazione abbondante. Rimasi stupito dalla qualità offerta da quel buco, ma ciò non era strano. Dodoma era piena di alberghetti economici di buona qualità, visto che periodicamente, quando si riuniva il parlamento, la città si riempiva fino all’ultima stanza.
Il giorno seguente, passeggiando nelle polverose strade di Dodoma, mi accorsi del gran numero di persone che usavano la bicicletta, così non ci pensai due volte e andai a noleggiarne una. In realtà non si trattò di una facile operazione in quanto l’uomo al quale mi rivolsi era molto diffidente:-Sei nuovo di qui? Non ho mai visto la tua faccia. E se ti do la bici, chi mi dice che poi me la restituisci?E se tu avessi un incidente, chi mi risarcirebbe? Ero colpito dal suo atteggiamento, ma pensai che quella fosse la prassi. E poi, chi ero io per meritare la sua fiducia? In fondo, quell’uomo stava semplicemente salvaguardando il suo piccolo business. Quando si convinse che non intendevo rubargli la bici, mi consegnò una specie di graziella nera con tanto di cambio e cestino anteriore. Prezzo pattuito: 300tzsh all’ora.

Mi diressi verso un’altura che nella mia guida era indicata come Lion Rock: una breve escusione di mezz’ora vi porterà sula cima, dove potrete godere di una vista mozzafiato.
Parcheggiai la bici presso un’abitazione privata, dopo aver chiesto il permesso al padrone di casa. Poi, percorsi un breve tratto di strada asfaltata, prima di raggiungere l’inizio del sentiero. Incontrai un gruppo di persone, così chiesi loro se sapevano il motivo del nome della montagna, Lion Rock. Nessuno seppe rispondermi, anzi mi dissero che a Dodoma non esisteva una montagna chiamata così. Loro la chiamavano mlima (montagna) e basta. Allora capii che sicuramente era stato un europeo a dargli quel nome e che quel Lion rock per gli africani non significava niente.
Un po’ deluso, iniziai il sentiero.
Quello che mi colpiva maggiormente, era la forma rotondeggiante delle rocce. Erano appoggiate le une sulle altre in perfetto equilibrio, come delle enormi sfere cadute dal cielo. Ne avevo viste di simili anche  a Mwanza, sul lago Victoria.
Raggiunsi la cima in pochi minuti, poi sedetti a riposare e a guardare il panorama. Proprio ai piedi della montagna notai un cantiere, si vedevano delle ruspe e alcune piccole buche. Pensai all’estrazione di pietre preziose, ma più tardi seppi che si trattava della costruzione della casa di un politico.
Una volta sceso dalla mlima recuperai la bici per tornare in città, ma dopo pochi metri vidi un cartello che non lasciava alcun dubbio: Leone l’africano-pizzeria. Era il locale di un Italiano, così entrai subito.
La struttura sembrava di recente costruzione. C’era un bel giardino con un mini-golf e una sala ristorante semplice e accogliente. Mi sedetti ad un tavolo e ordinai una  margherita. Il locale era quasi vuoto, forse perchè in quel periodo non c’erano attività parlamentari e di conseguenza la città era semi deserta.
Dopo una breve attesa il cameriere portò la pizza...e anche i gestori del locale. Erano Nino e la moglie Giovanna, soci fondatori dell’associazione Kisedet, kigwe social economic development and training.
Nino e Giovanna vivevano in Tanzania da circa quindici anni, parlavano un perfetto kiswahili e conoscevano anche il dialetto della popolazione locale, i Wagogo. Mi fecero subito una bella impressione, erano persone semplici e si occupavano di progetti costruiti assieme agli africani. Nel frattempo altri italiani arrivarono al ristorante, ma non ebbi modo di conoscerli perché andarono a sedersi nella sala interna. Nino, rimase con me e parlammo un po’.- Eh si, bello girare il mondo, ma non sono più un ragazzino! Rientriamo in Italia ogni 2 anni circa, ma solo per fare un giro. Di tornare per adesso non se ne parla, anche perché mi sembra che la non sia facile trovare lavoro. E poi qui stiamo bene, abbiamo due bambini piccoli.  Ora abbiamo aperto questo locale, vediamo come va!
Finita la pizza, salutai Nino e Giovanna e ripresi a pedalare verso il centro.
Arrivato alla rotatoria pensai che era troppo presto per rientrare, così presi la strada che portava al Chuo Kikuu Cha Dodoma, l’università più importante della Tanzania. Si trovava su una collina appena fuori città, e dominava sul quel paesaggio fatto di capanne, deserto e terra rossa.
Una volta arrivato mi resi conto che non si trattava di un singolo edificio, ma di un grande campus universitario che si estendeva per centinaia di metri. C’erano diverse costruzioni, alcune ancora in fase di realizzazione. Quella era tutta opera degli amici preferiti della Tanzania: i cinesi! Guardarli mentre istruivano gli africani, attirò la mia attenzione al punto che, non andai a visitare l’università, rimasi a guardare la scena: il cinese seduto nel suv, dava indicazioni all’africano sulla ruspa. Ecco che la ruspa raccoglieva la terra e la depositava sulla banchina da sistemare. Poi il cinese scendeva dal suv e faceva un gesto circolare con la mano. Allora la ruspa tornava indietro, ripeteva l’operazione e sistemava il tratto successivo...
Dopo quella breve e attenta osservazione, girai la bici e tornai in città.
Erano quasi le sei e mezzo quando mi presentai per riconsegnare la bicicletta. Il negoziante provò a chiedermi un extra, ma alla fine si accontentò del prezzo pattuito. Prima di rientrare alla guest house mi fermai in un bar a bere una soda e a guardare la televisione. Trasmettevano la replica di un programma molto popolare e abbastanza stupido: maisha plaza.

2-Il cinema
Il giorno successivo, sempre in bici, avevo progammato di tornare sulla collina e finalmente visitare l’università.
Stavolta a fermarmi fu un piccolo incidente, cioè la foratura di una ruota.
Dei ragazzi che mi avevano visto arrivare si precipitarono per offrirsi di riparare la bici:- Mzungu, njoo! Unahitaji pancha pancha pancha...- cioè dicevano che avevo bisogno di una camera d’aria. Allora lasciai la bici a quei esperti di pancha, e andai a comprare da bere. Arrivato al negozio rimasi colpito dall’insegna curiosa: locandine di film, attaccate con il nastro adesivo... Quello non era un semplice negozio, era un cinema!
Sollevai una tendina sudicia e entrai in sala, facendo attenzione a non disturbare la proiezione in corso.
Il cinema era costituito da due telivisori, un piccolo e un grande, posizionati in due stanze diverse. Alcune panche sistemate alla buona, sul pavimento di terra rossa, facevano da platea. Per assistere ad una proiezione bisognava pagare 200tzsh.
Gli spettatori erano numerosi e stavano guardando un film di arti marziali (il genere preferito dei giovani tanzaniani), una voce fuori campo traduceva in kiswahili.
Ero arrivato proprio nel momento cruciale, il combattimento era giunto al termine e adesso il vincitore puntava la spada al collo dello sconfitto. Allora in sala cominciò una vivace discussione: lo sconfitto doveva essere ucciso oppure no? Alcuni ridevano e gridavano, altri protestavano dicendo che quelle chiacchere disturbavano la visione del film, ma improvvisamente...colpo di scena! L’uomo a terra tirò fuori un coltello dalla cintura e colpì a morte l’avversario.
Nessuno si aspettava quel finale a sorpresa.

3-La casa rossa
Poco distante dal cinema c’era un ragazzo che stava costruendo una casa, rossa come la terra circostante. Mi fermai e parlai un po’ con lui. Mi disse che nel giro di pochi giorni avrebbe finito: - La casa sarà pronta in una settimana. Dalla vendita ne ricaverò circa 350.000tzsh (150euro)Ne costruisco spesso, di case come queste; è il mio lavoro e mi piace-

mercoledì

HABARI ZA SAFARI









-Shikamoo Babu!
-Marahaba bwana, umeankaje ?
-Salama, na wewe pia?
-Ndyo…
L`incontro con Babu è un appuntamento che scandisce il tempo delle mie giornate. Pochi attimi che hanno però un significato importante.
Babu avrà novant’anni. Dico avrà perchè nessuno veramente lo sa con precisione, nemmeno lui. Ma qui, specialmente nelle zone rurali, il preciso dato anagrafico non ha importanza. Si sa che lui è il più vecchio di tutto il villaggio. Per questo, al mattino il primo saluto della giornata dovrà essere per lui, no way.
E` alto e molto magro. Cammina piano piano ed ogni movimento gli costa un certo sforzo. Ma stà bene; è autosufficente e si arrangia in tutto. Vive con la famiglia di sua figlia. Una famiglia molto allargata, come vuole la tradizione africana. Ci sono sua figlia con il marito e i relativi 4 figli. Poi due nipoti piccoli provenienti dalla famiglia di un altro figlio che però vive in città e non ce la fa con i soldi. Poi c`e un`altra figlia di Babu con il suo bambino. Ci sono anche tre ragazzi adolescenti figli di un masai imparentato con il marito della figlia di Babu. Infine c`e una ragazza che aiuta a cucinare i pasti, non fa parte della famiglia, ma anche lei fa numero. In tutto sono…ho perso il conto, ma son tanti.
Il Babu passa le giornate seduto nella sua sedia osservando quello che succede nel villaggio. Ma il suo osservare e` discreto e rispettoso. Con molta calma.
Ogni tanto fa due passi con la sua capra. La porta a spasso per un po` e poi la lega ad un albero, dove può starsene all`ombra a brucare l`erba. Poi lei si libera e se ne va poco distante a cercare altra erba. Allora il Babu si alza e comincia a chiedere a gran voce- Dov`e la capra?! Avete visto la mia capra?! – E, dopo numerose ricerche nel raggio di 20-30 metri, la trova all`ombra dell` albero più grande.

-Leo ni joto sana, jua ni kali !-Oggi fa caldo e il sole è tagliente, dice il Babu.

Il suo modo di raccontare e spiegare le cose e` di una semplicità disarmante. Ad esempio un giorno mi fa – I tedeschi ? Sono venuti in Africa ed hanno ammazzato un sacco di persone. Poi se ne sono andati. E oggi vengono a vedere i leoni del Serengeti. Non ti sembra strano, eh ?! Oppure- Vorresti sposare la figlia di un mio amico ? Guarda, e` quella la in fondo. La vedi? Guarda che fianchi robusti, ti darà molti figli… Vai da suo padre e portagli un paio di vacche grasse…così la sposi, semplice!!!

Il Babu non è mai andato a scuola. Non sa ne`leggere ne` scrivere, ma quando te lo trovi davanti ti rendi conto che si tratta di una persona che ha una grande conoscenza. Quel tipo di conoscenza che soltanto un certo tipo di vita può dare. Mi racconta che da ragazzo portava il bestiame nelle grandi pianure in cerca di erba e acqua, camminava per giorni e giorni e qualche volta arrivava fino in Kenya.
Era un Safari vero, il suo.
Un viaggio che poteva comprendere molte cose. La lotta per la sopravvivenza prima di tutto e poi la fatica, gli animali selvatici, la malaria.
Ma alla fine del viaggio aveva imparato molto, un qualcosa da tenere per sempre e tramandare alle persone del suo villaggio, Habari za Safari.

Non so perchè, ma ascoltando la parole del Babu mi viene voglia di raccontargli qualcosa. Allora prendo il mio dizionario italiano-kiswahili e mi siedo vicino a lui.
E` la storia di due fratelli, Angelo e Andrea, due soldati dell`esercito italiano sul fronte russo. La guerra finirà presto e i due giovani stanno tornando a casa, dopo la storica batosta. Un lungo viaggio attraverso le gelide terre siberiane. In questo caso non ci sono gli animali selvatici o la malaria, ma il freddo e la guerra sono più che sufficienti a rendere questo safari estremamente difficile.
Angelo però non e` fatto per stare nell`esercito; è stanco della guerra e la sua indole e` quella del ribelle, sempre pronto ad andare contro le regole. Dice che non salirà mai su quel treno militare. Preferisce disertare, abbandonare per sempre l`esercito. Magari gli spareranno durante la fuga, ma non importa, lui ha deciso e così farà. Andrea invece ha solo 17 anni. Non e` come suo fratello, spregiudicato e temerario. La guerra finirà presto e lui non vede l`ora di tornare al suo paese dove tutti lo stanno aspettando.
Ma Andrea, a casa sua non tornò mai più. Il treno sul quale viaggiava fu fatto saltare in aria. Ufficialmente è tuttora disperso.
Angelo invece, schivate un paio di pallottole, riuscì a scappare, ma il suo safari di rientro fu più lungo del previsto. Dieci anni attraverso l`Europa semidistrutta del dopoguerra, prima di tornare alla sua terra d'origine, l'altopiano di Asiago.

Il Babu ascolta con attenzione senza farmi pesare il mio kiswahili ancora precario. Sembra capire molto bene quello che gli dico. Poi quando ho finito di parlare, dopo una lunga pausa, mi dice : -Ah, pole…lakini mtu moja amerudi nyumbani! Però uno dei due e` riuscito a tornare a casa! Safari imekua mbaya kidogo! Il safari e`stato duro, ma non completamente negativo perché uno dei due alla fine e` tornato a casa!-
E anche questa volta, il Babu da prova della sua saggezza. Come sempre il suo punto di vista riesce a mettere assieme tutti gli aspetti. La sua capacità di leggere le cose da una prospettiva più alta e`straordinaria.
Restiamo in silenzio per un bel po’, ma si tratta di un silenzio sereno. L`Africa e l`Europa si sono appena incontrate in un punto indefinito dello spazio intorno a noi. E sappiamo entrambi che non c'è nient'altro da aggiungere.
-Sasa, mimi naenda kutembea kidogo, tutaonana baadaye- dice il Babu alzandosi e comunicandomi la sua intenzione di farsi una passeggiata. -Safari njema- gli rispondo io, sapendo che per lui quei mille metri fino al negozio saranno un piccolo viaggio.

E forse, un altro Habari za Safari da raccontare.