Conoscevo  abbastanza bene Dar Es Salaam perchè ogni volta che andavo da qualche  parte alla fine passavo di li. Il punto d’incontro delle strade  asfaltate più importanti e la stazione ferroviaria dalla quale si  diramano le linee Tazara e  Central line, facevano di Dar la città più importante della nazione.
Ma  questa volta non stavo gironzolando a caso o pensando di prendere un  autobus e partire per chissà dove, avevo un obiettivo preciso: ottenere  un permesso di soggiorno che sarebbe stato valido per due anni e che mi  avrebbe consentito di continuare la mia attività presso la scuola di  Imbaseni.
Anche  ad Arusha avevo fatto l’esperienza dell’ufficio immigrazione, quindi  sapevo che non sarebbe stato facile e che l’operazione avrebbe richiesto  fatica e molti giorni.
Così  non persi tempo, il mattino successivo al mio arrivo in città, mi recai  in un stationery e fotocopiai tutti i documenti da presentare:
-modulo di richiesta del permesso
-curriculum vitae
-fotocopia dei titoli di studio
-fotocopia del passaporto
-T.I.N. e Memorandum delle attività della scuola
-Lettera firmata dal responsabile dove si motivava la ragione per cui la mia          presenza era richiesta
-centoventi dollari americani per le tasse
Guardavo  e riguardavo le mie preziose carte e controllavo che tutto fosse in  ordine. Sapevo che la giornata non sarebbe stata facile e che avrei  avuto a che fare con persone potenzialmente pericolose.
Entrai  nell’ufficio immigrazione di Dar es Salaam verso le otto, e mi dissi  quello era uno dei peggiori posti di tutta la Tanzania. Anche se era  presto e non c’era quasi nessuno, mi toccò aspettare per un’ora. Poi,  quando una guardia mi fece un cenno con il braccio, mi alzai e andai  allo sportello. Un uomo in divisa militare mi aspettava, prese in malo  modo le mie carte e le esaminò con sprezzo. Poi, senza nemmeno guardarmi  in faccia mi disse di tornare a sedermi e aspettare.
Non  importa, pensai, certo che aspetto. Le carte sono apposto, tutto  regolare. Qui ci sono i soldi, il passaporto, le fotocopie...Aspetto.
Per ammazzare il tempo iniziai a leggere un giornale che mi ero portato da casa, Daily news, il mio preferito. 
In  prima pagina c’era un trafiletto che parlava della Somalia. Diceva che a  Mogadiscio esisteva una piccola comunità di zanzibarini  perennemente  soggetta alle angherie dei somali. Mi chiedevo come mai da Zanzibar  quelle persone fossero andate in Somalia, teatro di guerre da molti  anni...ma non potei continuare a leggere il seguito dell’articolo perché  nel frattempo un tizio si era seduto al mio fianco dicendo -Italiano? Allora, come stare?- 
Chiaro  che il tizio aveva letto la copertina del mio passaporto e adesso  voleva fare conversazione con me. Anche perchè si ricordava un po’ di  italiano. Anzi, lo parlava bene:
-Ho vissuto in Italia per due anni. Stavo a  Napoli, e mi piaceva così così...  Avevo  tanti amici, ma il problema era il lavoro. Così ogni giorno io fare un  po’ di questo e un po’ di quello. Vuoi sapere come mi hanno trattato gli  italiani? No male no male. Ah beh, io noo problema. Solo che stipendio  era sempre più basso di italiani. Lavoro uguale, ma soldi diversi. Eh  si, napoletani fuurbi. Poi un giorno io  trasferito a Milano.  In quella città ci sono troooppi soldi! Io un giorno voglio tornare a Milano…
Ma  all’improvviso venne ancora il mio turno. Scattai dalla sedia sentendo  pronunciare il mio nome e mi precipitai allo sportello.
-Alexandro?
-Si, Alessandro
-La sua richiesta è stata rifiutata
-Come rifiutata?
-C’è un errore nelle sue carte!- Quello alzò la voce. 
-No, non è possibile -obiettai-mi faccia vedere dove-
-Ecco  qua! Guardi, in tutta la sua documentazione c’è scritto Scripture  Union, ma qui, nel suo permesso precedente c’è scritto Scripture Union  Mission! Rifiuto, rifiuto…non mi faccia perdere tempo, se ne vada o la  farò espellere dal paese!
Provai  ancora a parlare con l’uomo-soldato, ma ottenni l’effetto contrario.  Quello chiuse lo sportello e si mise ad inzuppare nel latte una fetta di  pane spalmata col burro, sbrodolando i documenti circostanti. Restai  fermo con gli occhi sbarrati, allibito da quel comportamento. Avevo  fatto seicento km per il permesso di soggiorno e ora l’uomo-soldato mi  liquidava in quel modo.
Il problema era serio, senza permesso di soggiorno non potevo rimanere in Tanzania.
Allora  ricontrollai le mie carte e mi accorsi che effettivamente  l’uomo-soldato aveva ragione. L’imperfezione c’era ed era stata opera di  un altro uomo-soldato di Arusha che aveva compilato il mio visto  precedente. Ma in ogni caso non mi sembrava una ragione valida per non  accogliere la mia domanda perchè non stavamo parlando di un rinnovo, ma  di una richiesta completamente nuova.
Tornai a sedere e cercai di farmi venire un’idea; sudavo e stropicciavo le mie preziose fotocopie.
Non sapevo cosa fare, ero nelle mani di un uomo-soldato che adesso si stava leccando le dita. 
Quella situazione mi faceva pensare al cartone animato Le 12 fatiche di Asterix,  quando Asterix e Obelix si trovano dentro la casa dei folli e devono  riuscire a farsi dare il lasciapassare A38. Ma come avevano fatto a  superare quella prova, mi chiedevo guardando il soffitto... 
Per  rilassarmi allora, pensai di leggere il giornale, volevo sapere di quei  zanzibarini a Mogadiscio, mi sembrava una storia interessante...ma  niente da fare. Il tizio che amava Milano e si lamentava degli  stipendi...mi aveva fregato il giornale! 
Senza dubbio la giornata non era cominciata bene.
Poi, un altro tizio venne a sedersi accanto a me. 
-Ehi man, how is it?-  
Quell’uomo  si chiamava Patrick, e lavorava per una grossa NGO americana. Il suo  lavoro consisteva nell’assistere i colleghi in quella giungla di  nullafacenti, al fine di ottenere i vari permessi di soggiorno, visti  lavorativi e altri documenti. Sapeva come funzionavano le cose e aveva  appena visto la mia performance allo sportello.
Si avvicinò ulteriormente e mi disse: -Adesso ti spiego come dobbiamo fare- 
Il fatto che parlasse al plurale mi sorprendeva e mi dava speranza, forse quel Patrick era la mia soluzione. 
Con  fare da veterano, mi disse che in quell’ufficio per ottenere qualcosa  bisognava “oliare gli ingranaggi giusti” cioè offrire una bustarella.  Niente bustarella, niente documenti. Un ragionamento che mi faceva  vomitare, ma il permesso di soggiorno era troppo importante, così seguii  attentamente le istruzioni di Patrick. Mi disse che dovevamo parlare  con Grace, una graziosa impiegata che in cambio di un piccolo regalo mi  avrebbe aiutato.
-Ma quanto dovrò sborsare?- Chiesi preoccupato
-Oh, non preoccuparti, diecimila tzsh saranno sufficienti, l’importante è essere gentili- 
La pragmaticità di quell’americano mi rassicurava e faceva ben sperare. 
Dopo  due ore di attesa snervante ci incontrammo con questa Grace, una donna  elegante e carina che mi sembrava fosse in cerca di compagnia, più che  di bustarelle. Ricordando le istruzioni dell’americano, feci del mio  meglio. Parlai a Grace sempre in Kiswahili, (questo impressionò  Patrick  che non ne sapeva manco una parola), facendole complimenti, invitandola  a visitare la scuola di Imbaseni e chiedendole di accettare un piccolo  regalo, per ringraziarla del prezioso aiuto che (in teoria) mi avrebbe  dato. Una banconota da dieci passò rapidissima dalle mie mani alle sue.  Uno scambio di falsi sorrisi e il gioco era fatto. Grace tornò nel suo  ufficio, esaminò la mia richiesta e dopo pochi minuti tornò sorridente: -  Tutto apposto, torna tra venti giorni. Il tuo permesso  sarà pronto, ricordati di portare la ricevuta e i dollari americani. E  telefonami, se resti in città- 
Patrick, che era rimasto al mio fianco per tutto il tempo, volle però strafare. 
Sei  proprio brava Grace, aiuti sempre i miei amici. Vorrei farti un regalo,  posso offrirti qualcosa? Che cosa preferisci, una tazza di the con dei  dolcetti ?
E lei: Si,  in effetti ti ho aiutato molte volte e sarà un piacere continuare a  farlo. Però vorrei un regalo, comprami un computer portatile!
Mi  misi una mano sulla bocca per non ridere. Quell’americano aveva fatto  il passo più lungo della gamba e si era appena messo in un pasticcio.  Quindi levai le ancore, e per educazione presi il numero di Patrick al  quale dovevo un favore (gli avrei offerto un caffè, il giorno seguente).  Presi anche il numero di Grace, e finalmente uscii da quell’orrendo  edificio. 
Soddisfatto  e quasi trionfante, mi recai al bancomat della barclays, in Ohio  street. Volevo prelevare dei soldi e andarmene al mare a oziare e  distrarmi. Ma la mia carta di credito, dopo essere entrata nello  sportello, non tornò più indietro. 
Questa però è un’altra storia...